Intervista / Rezza-Mastrella

IMG_9037-e1448558622934

Photo Courtesy / ph©Giulio Mazzi

di Victor Attilio Campagna e Camilla Giannelli

///

Con Anelante, Rezza e Mastrella hanno fatto un altro passo nel mondo dei teatri senza scendere al compromesso della convenzione: il loro estro artistico non conosce rivali nell’ambito della riscrittura dei canoni. Per loro la performance è formazione in fieri, sperimentazione continua, ricerca dello spontaneo e dell’assurdo secondo l’anarchia sistematica necessaria per discutere questioni complesse. Chi ha visto Anelante, a prescindere da qualsiasi giudizio di gusto sul loro operato, dovrebbe riconoscere che il loro lavoro è essenziale per rimettere in discussione un luogo, dove cambiare le carte in gioco sembra difficile, ma alla fine, provandoci con impegno, si può lasciare  un segno davvero indelebile.

 …

Spazio come corpo abitativo mutevole.
Intervista a Flavia Mastrella


Nel teatro tradizionale il creatore dello spazio è l’uomo o il personaggio che lo abita. Nella vostra ricerca la genesi della performance sembra invece essere lo spazio e il suo significato. Tu, Flavia, hai spesso definito lo spazio corpo abitativo o habitat. Viene da chiederti: da cosa nasce un habitat?

Il lavoro dell’habitat nasce dopo una ricerca formale di scultura, fotografia o pittura. Io parto da un concetto: ti faccio l’esempio del Bahamut dove ho fatto un’indagine sul valore educativo del giocattolo. Ho indagato sui giocattoli e tale ricerca si è particolarmente sviluppata quando ne ho trovati alcuni rotti sulla spiaggia e li ho messi insieme, fondendo il loro significato educativo per poi cambiarne le proporzioni. In seguito ho raccolto pezzi di giocattolo invecchiati dalle onde del mare che sembravano antichissimi, proponendo un discorso sul presente che sembra antico. Solo in seguito sono arrivata a Bahamut: delle scatolette contenenti dei mini uomini.

///

Esso si comporta come un interlocutore?

L’habitat è come una città: la subisci, la trovi quando nasci e quindi ti condiziona. L’uomo, infatti, è molto influenzato dallo spazio circostante. L’architettura insieme alla natura è una delle cose che condiziona di più il pensiero umano.

///

Che tipo di interazione ha il performer con l’habitat e fino a che punto può arrivare a modificarlo?

Inizialmente faccio un prototipo composto da costruzioni primitive ed in seguito lo sviluppo; esso è denso di riferimenti visivi e culturali. Antonio poi entra nell’ambiente, si stupisce ed inizia ad esplorarlo e a modificarlo. Io penso che se una cosa non è fatta bene non comunica. Antonio, ad esempio, in Bahamut si trova in una scatola ed è un uomo completamente castrato. Egli rappresenta un uomo dentro alla scatola della realtà, dove, fermo ed infermo, rieduca via via il proprio corpo. Antonio saccheggia lo spazio abitativo rimanendone influenzato; lo spazio poi si arricchisce dei suoi contenuti, infatti egli immette in esso i suoi concetti. Nell’habitat ci sono sempre tanti riferimenti che vanno dall’arte medioevale fino a Piero della Francesca, Fontana e Burri; evidenti soprattutto nell’uso dei materiali e nella composizione dello spazio stesso.

///

Quanto può essere destrutturato un habitat dal suo abitante?

Può essere anche capovolto. Esso è completamente destrutturato: noi montiamo e smontiamo tutto, compresi i nostri stessi concetti.

///

Costruite insieme la regia, tu e Antonio?

Sì, infatti, lungo gli ultimi sei mesi, diamo la forma al progetto, sempre su base reale, che si sviluppa mantenendo dei punti fermi.

///

Quanto entra il pubblico in questa cucitura finale?

Antonio improvvisa il suo lavoro sulle persone. Però insiste il fatto che coloro che vedono l’opera non la subiscono, ma la rielaborano, ristrutturando e riformando il significato. Infatti, se chiedete un parere alle varie persone che hanno visto un nostro progetto, vi diranno sempre cose diverse.

///

In che senso in Anelante il tema è la potenza del bagaglio degli avi? E poi, come definiresti tu stessa lo spazio creato con Antonio in questo spettacolo?

Anelante parlava di muri già un anno fa, all’inizio della sua lavorazione. Il mio era un lavoro sulla guerra a livello formale, che prevedeva anche di uccidere figurativamente degli individui.

Lo spazio che ne è venuto fuori si è rivelato uno spazio mentale, una dimensione piuttosto. Spazio e parola alla fine vengono percepite dallo spettatore come una dimensione.

///

  

ANELANTE-rezzamastrella-foto-Giulio-Mazzi-IMG_9131

Photo Courtesy / ph©Giulio Mazzi

 

 …

I confini dell’azione preformativa.
Intervista ad Antonio Rezza


Nel vostro lavoro la scomposizione è parte integrante della creazione. Scomposizione e demolizione dei ruoli e delle gerarchie, scomposizione dello spazio e degli schemi creativi ordinari. Tuttavia nel ritmo della parola e dell’azione spesso usate la ripetizione. Che finalità ha questa ripetizione di gesti e parole?

Non ce lo poniamo all’origine, il lavoro che facciamo scavalca la nostra volontà. Per quanto riguarda la scomposizione si può citare Cioran, il quale dice che nel frammento è più difficile mentire, in esso non c’è spazio temporale per la bugia.

///

Di Cioran mi viene in mente Il funesto demiurgo dove emerge una visione estremamente critica delle religioni monoteiste. Questo collegamento è rafforzato dal fatto che tu lo citi dopo aver affermato, nello spettacolo Anelante, che Dio è contemporaneamente attratto e spaventato dal “culo”.

Se ci pensi non è forte come concetto perché l’umanità, se avesse fortuna (il culo è inteso come sorte), non avrebbe bisogno di trascendenza e quindi nessuno crederebbe, nemmeno la vecchietta che va alla messa delle sei, perché non ne avrebbe bisogno. Da qui la riflessione per cui il nemico più grande di Dio è il culo. Io penso che la migliore speranza che debba avere un credente sia che Dio non esista, perché altrimenti sarebbe il primo a fargli il culo.

Nello spettacolo si dice anche di più, cioè che Dio è omosessuale. Il principio base è che ognuno col proprio corpo può fare quel che gli pare. Per cui non può esistere una domanda sull’omosessualità, come non esiste per l’eterosessualità. Quel che più importa è che nessuno agisca nelle veci del corpo di qualcun altro. L’omosessualità purtroppo è un fenomeno di accettazione sociale e questo crea lobby e sotto lobby: anche il teatro viene gestito secondo criteri simili alla gerarchia Ecclesiastica. In senso generale esiste un protezionismo legato all’inclinazione sessuale che non è altro se non una forma di razzismo.

La nostra società è maschilista, così le alte cariche ecclesiastiche, costituite, non a caso, solo da uomini. Questo ci basta per dire che Dio ha un’inclinazione verso l’omosessualità.

///

Spesso, in numerose interviste, hai parlato della differenza tra attore e performer definendo il secondo come un artista-uomo che non serve alcun personaggio. Nel vostro lavoro compare la maschera vocale e facciale che spesso caratterizza il tuo intervento in scena. Benché l’uso delle emozioni non sia parte della vostra ricerca, la maschera e gli strumenti dello spazio invece si. Quali sono quindi, nel tuo lavoro, i confini di massima tra l’attore ed il performer?

Io non credo nella funzione sociale dell’attore: non credo che qualcuno possa rinunciare al sé per servire un personaggio. Non vedo come si possa essere felici in questo. Che poi questa pratica possa creare profitto è un altro discorso: l’attore diventa sociale quando non sente il personaggio e usa il proprio corpo per un atto performativo, un atto che non ha bisogno di mediazione, né di emozioni altrui. Il performer non scende a patti con se stesso: porta con sé esclusivamente il suo corpo, il suo pensiero, le sue azioni.

Abbiamo fatto un film sul teatro Valle occupato, in cui abbiamo posto una domanda agli attori: perché voi costruite una ricchezza sulla base delle disgrazie dell’umanità?

///

Sappiamo che voi avete una gestazione aperta degli spettacoli, che vengono presentati al pubblico durante i nove mesi di ricerca che solitamente fate per la loro preparazione. Il pubblico e la sua interazione che ruolo hanno nel processo creativo?

Il pubblico ha un ruolo fondamentale: senza di esso, così come senza l’altro, non riusciremmo a sostenere questo livello di sforzo fisico, che è ottenuto grazie a narcisismo e timidezza. Senza chi guarda sarebbe solo un esercizio tecnico. Serve il movimento e l’energia: le prove aperte hanno la funzione di far percepire il movimento del corpo di chi osserva. Non possiamo rinunciare a questo rapporto.

///

Come definiresti l’azione della parola e dei gesti creati in questo spettacolo con Flavia?

Un movimento completamente diverso dal passato che ha stupito anche noi. Con FrattoX ci siamo fermati e pensavamo non ci fosse evoluzione possibile nei movimenti. Invece l’intuito ci ha portato a un’innovazione. Far lavorare insieme a me altre persone è stato centrale, considerato soprattutto che, per noi, era quasi un’eresia; avere più attori in scena significava decentralizzare il movimento ed è stato molto efficace. Per ritornare a Cioran, ci ha spinti la noia e ci ha portati all’intuito. Questa è l’apertura di una strada che continuerà.

///

In molte interviste dichiari che lavori spesso con un interlocutore. Ci puoi rivelare chi è questo interlocutore?

Il mio interlocutore principale, mio amico sin da quando avevo quattro anni, è Massimo Camilli, abbiamo un’intesa eccezionale. Ha una tale capacità di concentrazione che mi permette di liberarmi: con lui si realizza il momento più divertente, il momento iniziale, un rapporto intimo che non si potrebbe realizzare con nessun altro.

///

Photo Credits:

Immagine di copertina ph©Flavia Mastrella
Immagini articolo ph©Giulio Mazzi

 

Autori