La ritirata dell’avanguardia, ovvero il postmoderno

di Simone Belletti

///

In occasione di un dibattito sul romanzo sperimentale, Umberto Eco, con un fatidico intervento, suggerisce la possibilità che i materiali narrativi convenzionali possano essere riscoperti e riutilizzati in maniera inedita, anziché semplicemente superati dalle nuove forme avanguardiste. È l’inizio della riflessione sul romanzo postmoderno.

25582637312_001934bd3b_b

Quando è stato annunciato il tema del nono numero della rivista, l’esagramma 33, ossia La ritirata che non coincide con la disfatta, ma che consiste nell’adeguato ritiro indispensabile al naturale fluire degli eventi, non ho potuto fare a meno di sospettare che l’I Ching abbia voluto rendere un ultimo omaggio a Umberto Eco, che da poco ci ha lasciati.

Già, perché proprio la ritirata è stata il tema di un fondamentale, profetico, intervento dello studioso, che propose di applicarla alla scrittura del romanzo contemporaneo.

Un’introduzione chiarificatrice a questo punto è opportuna.

Quella della ritirata è un’immagine bellica e la letteratura non è nuova a questo campo semantico: diversi gruppi di autori decisero di usare il termine avanguardia, pescandolo dal gergo militare, per autodefinirsi.

Nella fanteria l’avanguardia è quel tipo di truppa, tipicamente la più temeraria, che avanza in territori inesplorati, li percorre e torna dal resto dell’esercito per guidarlo attraverso nuove direzioni.

Un’immagine quantomai coerente con il compito che si prefiggevano le avanguardie in campo letterario.

Bisogna poi distinguere tra avanguardie storiche, cioè quelle di inizio novecento (futuristi, dadaisti, espressionisti, surrealisti e tutti gli altri -isti) e neoavanguardie, ovverossia quelle di metà secolo.

Intorno agli anni Sessanta, infatti, si tornò a parlare di avanguardia per designare quei movimenti letterari sperimentali votati a rinnovare radicalmente le forme, i contenuti e le funzioni della letteratura.

In Italia tale movimento è noto come Gruppo 63 e tra i suoi massimi teorici troviamo proprio Umberto Eco.

Il gruppo si riuniva annualmente per discutere quali direzioni stava prendendo l’avanguardia e quali territori scopriva la sua avanzata. Il congresso del ’65 aveva come tema il romanzo sperimentale, la forma che avrebbe dovuto avere il romanzo avanguardista.

Chiaramente la neoavanguardia era indirizzata allo sperimentalismo radicale. Gli elementi tradizionali, come personaggi, trama e narratore dovevano essere distrutti, e i romanzieri che usavano tali artifici convenzionali erano additati come «le nuove Liale» (da Liala, popolare scrittrice di romanzi rosa, oggi diremmo forse gli Harmony), insomma scrittori invischiati nel ciarpame romanzesco.

Ed eccoci arrivati al fatidico discorso di Eco.

Davanti al drappello di agguerriti avanguardisti, pronti col coltello tra i denti ad avanzare verso l’ignoto, Eco prende la parola con un’osservazione acutissima:

Oggi abbiamo fatto tanto parlare di narrativa autre, ma comincia a cogliermi il sospetto che la maggior parte della narrativa di cui abbiamo parlato sia già même, cioè rientri nella normalità di una macchina narrativa che trova nel lettore un sistema di attese e di rispondenze pienamente qualificate. L’autre, in gran parte, sta diventando même.[1]

Lo shock provocato dalla novità, cioè, corre il rischio di diventare la nuova consuetudine, non si avverte più lo straniamento ottenuto con tecniche artistiche inedite, anzi, l’avanguardia ha edificato un sistema di aspettative altro, con cui il pubblico ha ormai dimestichezza; l’avanguardia sta diventando comprensibile, piacevole, gratificante e persino edificante, fino a non essere più in grado di mettere in crisi alcuna certezza.

 Arriva a intuire altre direzioni per il romanzo:

Credo che sarà possibile trovare elementi di rottura e di contestazione in opere che apparentemente si presentano ad un facile consumo ed accorgersi al contrario che certe opere, che appaiono come provocatorie e che fanno ancora saltare sulla sedia il pubblico, non contestano nulla.[2]

Qui Eco getta i semi della teorizzazione del romanzo postmoderno, come avrà modo di chiarire in seguito:

La risposta postmoderna al moderno consisteva nel riconoscere che il passato, visto che non poteva essere distrutto, perché la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato in modo non innocente.[3]

Quel «non innocente» che chiude la frase ci fornisce l’ultimo tassello del nostro discorso sull’esagramma 33, su Eco e sul postmoderno.

Il romanzo postmoderno tornerà sì a usare schemi precedenti, ma utilizzandoli in maniera consapevole, ironica e non innocente.

Gli scrittori riscopriranno i personaggi, il narratore, la trama, e tutti gli elementi tipici del romanzo, anche esagerati, mischiati, variamente citati, consci, però, delle loro operazioni di ripresa e riutilizzo.

Ecco la ritirata strategica dell’avanguardia, che, avanzata fino a posizioni estreme, si ritrova in terre desolate che più nulla hanno da offrire. Allora comprende che i vecchi materiali non devono essere buttati, bensì riutilizzati per fare qualcosa di nuovo.

Non una disfatta, un puro ripiegamento, ma una ritirata in armonia col fluire degli eventi.

Che anche Eco abbia consultato l’I Ching?

Note

[1] Gruppo 63, Il romanzo sperimentale. Col senno di poi, a cura di Nanni Balestrini, L’orma editore, Roma 2013, p. 73.

[2] Ivi, p. 75.

[3] Ivi, p. 262.

Autore

  • Schivo laureando in Lettere Moderne, lettore onnivoro e curioso. Lo potete trovare in biblioteca intento a consultare voluminosi saggi di letteratura... è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare!