L’esito dell’inettitudine: Il soccombente di Bernhard

Dosso Dossi, Sapiente con compasso e globo, 1520 ca. - 1522 ca., Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara

Dosso Dossi, Sapiente con compasso e globo, 1520 ca. – 1522 ca., Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara

di Victor Attilio Campagna

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I rapporti fra ideale e reale  cioè, nella cultura cristiana, fra grande e piccolo  nel mondo della musica descritto ne Il soccombente sono rappresentati attraverso l’opposizione fra il grande virtuoso Glenn Gould e un piccolo personaggio che cerca nella propria musica un ideale filosofico.

La forza domatrice piccola è il potere di un soggetto/oggetto all’apparenza debole, ma che alla prova dei fatti sprigiona una forza inaspettata. Questo tipo di situazione ha avuto un certo influsso non solo nella cultura orientale: dalla mitologia greco-romana fino al cattolicesimo ci sono numerosi esempi di persone che si sono rivelate inaspettatamente potenti. Basti pensare al cristianesimo stesso, che ha come figura cardine Gesù, un uomo crocifisso dal potere di allora, l’Impero romano, che fu scalzato proprio da chi professava il cristianesimo. D’altra parte, questa stessa religione ha come eroi dei martiri, persone deboli che si sacrificano per un mondo altro, superiore, permettendo la costruzione di una tradizione agiografica dotata di un chiaro denominatore comune: il mondo terreno, nonostante la sua apparente forza coercitiva, non vale niente a confronto di chi ha fede nel dio cristiano.

Piccoli uomini che abbattono grandi esseri, spesso mostruosi, sono una costante in letteratura, ma nel contemporaneo la situazione è più complessa. In particolare c’è un romanzo di un autore estremamente versatile e controverso: Il soccombente di Thomas Bernhard[1], pubblicato nel 1983 in Germania. 186 pagine ininterrotte, a costituire un vero e proprio monologo, una costante nelle opere di Bernhard. Ne Il soccombente l’io narrante racconta la sua esperienza nel Mozarteum, prestigiosa scuola di musica di Salisburgo, dove fu allievo di Horowitz, uno dei più grandi esecutori per pianoforte di tutti i tempi. In questa scuola strinse amicizia con altri due virtuosi del pianoforte: Glenn Gould e Wertheimer, anch’essi allievi del maestro ucraino. Vi è una divisione netta tra i due protagonisti inventati, Wertheimer e lo stesso io narrante, e i due pianisti realmente esistiti, Glenn Gould e Horowitz: questa scissione tra reale e fantasia, in cui i personaggi inventati entrano nel mondo fenomenologico e si confrontano con esso, non è una dicotomia casuale, in quanto separa un’idea di pianista da una realtà pianistica e musicale. In questo scisma ha la meglio la realtà, dato che Glenn Gould viene riconosciuto come un genio e conduce i due personaggi di fantasia ad abbandonare le velleità artistiche. Entrambi, dopo aver lasciato la carriera di virtuosi, si dedicano alle “Scienze dello Spirito”, ossia alla filosofia: il potere del reale trionfa senza mezzi termini sulla teoria musicale. Eppure spesso l’io narrante ricorda come sia lui che Wertheimer fossero forse i migliori pianisti del Mozarteum («In verità Wertheimer suonava il pianoforte meglio di tutti gli altri allievi del Mozarteum», p. 107, «Tra tutti quelli che hanno studiato con Horowitz, noi eravamo i migliori, ma Glenn era migliore dello stesso Horowitz, diceva Wertheimer», p. 40); ma Glenn Gould li superava in quanto era un genio, qualcosa di inarrivabile. In realtà li supera anche perché Glenn è la realizzazione musicale e questa forza del reale trionfa sull’ideale filosofico della musica. Qui si nota l’analogia che può nascere rispetto a quanto detto sopra: se nel cristianesimo, cultura dominante nell’Occidente, il mondo del reale è infinitamente inferiore a quello ideale del giardino teologico, qui è tutto l’opposto. Tant’è che sia Wertheimer che l’io narrante falliscono nella vita («Glenn è il trionfatore, noi siamo i falliti», p. 29) e si limitano a dedicarsi alla speculazione, il primo tramite le Scienze dello Spirito, come le chiamava lui, il secondo dedicandosi alla filosofia pura e semplice. Tant’è che lo stesso io narrante afferma:

[…] io volevo essere o il migliore in assoluto o nessuno (p. 96).

Wertheimer, d’altra parte, si rivela un riflesso dell’io narrante, un imitatore:

Wertheimer guardava bene tutto quello che io facevo e poi lo imitava, e così, pensai, anche il mio fallimento lo ha guardato e poi imitato. Soltanto il suicidio derivò da una sua autonoma decisione (p. 98).

Del resto non poteva essere altrimenti: Glenn Gould, riassumibile come figura del reale, ha definito sin dal primo momento i due nelle loro caratteristiche, soprannominando Wertheimer Soccombente, l’io narrante Filosofo e l’autore, con estrema onestà intellettuale, dà ragione a Glenn. L’io narrante, d’altra parte, definisce Glenn l’inospitale. Questo gioco di ruoli tra realtà ed eidos si rivela essere uno scontro tra un principio ritenuto dai più piccolo e insulso, il primo, e uno invece visto come forte e invincibile, il secondo, il cui esito inaspettato è la vittoria del reale sulla forma.

Restano da definire i tratti del suicidio di Wertheimer, centrale in questa sconfitta. Il soccombente è il protagonista di questo monologo, tant’è che il titolo implica Wertheimer e spesso lo si nota nel libro stesso, dove emerge chiaramente che il ruolo di Wertheimer è fondamentale e necessario per capire Glenn Gould.

Partirò da Glenn Gould, dalle Variazioni di Goldberg e dal Clabicembalo ben temperato, ma per quel che mi riguarda Wertheimer avrà in questa descrizione un ruolo decisivo, giacché per me Glenn Gould è sempre stato in qualche modo legato a Wertheimer, e viceversa Wertheimer a Glenn Gould, e forse tutto sommato è stato più importante Glenn Gould per Wertheimer che viceversa (p. 170).

L’io narrante sta scrivendo un libro su Glenn Gould e per farlo si è trasferito a Madrid, in una casa a Calle del Prado, e nello scrivere questo libro, che sembra essere Il soccombente stesso, si confessa indeciso sul protagonista:

Se davvero ritenterò da capo la mia descrizione di Glenn Gould, pensai, dovrò inserirvi anche la sua descrizione di Wertheimer, e c’è da domandarsi chi sarà al centro di questa descrizione, se Glenn Gould o Wertheimer, pensai (p. 170).

Questo perché per spiegare Glenn Gould è necessario mostrare come questi ha visto e descritto Wertheimer. Sembra che il libro che stiamo leggendo sia proprio il risultato degli anni di lavoro dell’io narrante, la realizzazione di un’operazione teorica, in cui il protagonista è, a tutti gli effetti, Wertheimer, in quanto è il personaggio ideale per parlare di musica e di tutto ciò che significa; solo un soggetto debole nel reale, ma forte nell’ideale, poteva rappresentarne la profondità e la ricchezza. Un romanzo su Glenn Gould sarebbe stato solo un’agiografia laica di un grande pianista: per parlare davvero di musica c’era bisogno di un qualcosa di irreale e fallimentare, perché nel soccombere si ha una visione più chiara delle cose e di che cos’è armonia, che cos’è gloria, che cos’è virtuosismo. Già solo la coscienza di non esser capaci di raggiungere quell’ideale di musica perfetta non permette loro di continuare. Ma lo stesso Glenn Gould non è davvero la rappresentazione perfetta della musica, come egli stesso afferma:

Noi siamo quelli che vogliono continuamente sottrarsi alla natura, ma com’è ovvio non ci riusciamo, così diceva, pensai, e restiamo a metà strada. In sostanza, diceva, non vogliamo essere uomini ma pianoforte, […] ma in questo siamo destinati a fallire anche se non vogliamo crederci. Il sonatore di pianoforte ideale (Glenn non usava mai il termine pianista!) è colui che vuol essere pianoforte, e infatti ogni giorno mi dico appena sveglio, voglio essere lo Steinway, non voglio essere l’uomo che suona lo Steinway […]. Qualche volta ci avviciniamo, anzi ci avviciniamo moltissimo a questo ideale, diceva, ed è allora che ci sembra di impazzire, di essere quasi arrivati alla follia che temiamo più di ogni altra cosa al mondo.

Questo brano è fondamentale al fine della comprensione del nucleo di questo testo: l’artista desidera essere lo strumento che usa, fondersi con esso, perdendo la propria identità. Numerosissimi sono i riferimenti a come il poeta, ad esempio, diventa soggetto universale quando scrive, allo stesso modo Glenn vuole essere il suo Steinway, vuole essere oggetto artistico. Quest’operazione è possibile realmente solo quando ci si avvicina pericolosamente a quell’abisso che è la follia. Invece «Wertheimer possedeva una cosiddetta concezione dell’arte» di cui «Glenn Gould non aveva bisogno» (p. 98): il “soccombente” aveva una forma dell’arte, per cui non aveva la velleità di essere pianoforte, non voleva oggettivizzare la sua abilità artistica, perché essa era già oggettiva, in quanto idea, al di là della realtà. Questo status ha l’effetto tragico di impedirgli ogni realizzazione umana, effetto che si conclude con un suicidio. Una scelta, questa, dettata non tanto dal suo fallimento pianistico, ma dal Clavicembalo ben temperato, ossia da quel giorno a Salisburgo nel quale ha ascoltato le Variazioni di Goldberg suonate da Glenn: quello è stato il segno, il punto focale, in cui si è reso conto che l’ideale, per quanto «lui» suonasse «meglio di tutti gli altri» (p. 118), non poteva essere assolutamente al pari di Glenn e della sua arte, perché egli ha rappresentato non solo un genio musicale, ma una realizzazione di esso.

In questo romanzo, quella che era una forza domatrice piccola, ossia il reale, con la sua manifestazione fenomenologica, tanto svalutato e accantonato da secoli di svilimento del corpo, viene ad essere trionfante, facendo soccombere la “concezione della musica”, perché incapace di esprimere appieno le potenzialità dell’armonia. Questo passaggio è fondamentale, in quanto ci rivela come, in realtà, sia l’ideale a non poter raggiungere la realtà e non tanto il contrario. Parimenti, tuttavia, l’io narrante riconosce come sia difficile, quasi impossibile, scrivere un testo su Glenn Gould, perché sempre imperfetto, impreciso, inesatto. Siccome egli non riesce ad accettare l’insufficienza, trova il modo perfetto per scrivere di Glenn Gould attraverso Wertheimer, il quale diventa quel caleidoscopio che permette di capire la grandezza della musica nella realtà, però da un punto di vista ideale, come a dire che solo una visione delle cose può determinare gli aspetti di essa, soprattutto se si tratta di arte. Tant’è che la parola “idea” proviene dalla radice id-, da cui prende origine il termine greco eidonvideo in latino, nonché “vedere” in italiano: l’idea è una visione delle cose, che permette di chiarire e fare un prospetto identitario del reale.

Quindi ne Il soccombente si rovescia la concezione per cui la realtà è inferiore alla prospettiva di un “oltre vita”, dando dignità piena al tangibile, che può produrre una bellezza inavvicinabile da qualsivoglia pensiero o aspettativa.

Note

[1] Thomas Bernhard, Il soccombente, tr. it. di Renata Colorini, Adelphi, Milano 1999.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).