La montagna – Perché è lì

di Filippo Scacchi

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Decisione consapevole? Atto deliberato? La tendenza dell’uomo a cercare, nel figurato come nel pratico, la via verso l’ascesi sembra irrefrenabile. Guardiamo la conquista delle vette montuose: dall’uomo di Similaun alle spedizioni sull’Everest, la montagna si scala, in fondo, per un solo motivo.

Va bene lo ammetto: non avevo idee. Per settimane mi sono scervellato alla ricerca di qualcosa di interessante da raccontarvi a proposito di evoluzione o comportamento animale. Poi ho realizzato che l’ultima cosa di cui volevate leggere era ancora l’evoluzione o il comportamento animale. Perciò questo articolo è un po’ diverso dal solito.

Non so voi, ma quando sento parlare di ascensione la prima cosa a venirmi in mente è qualche filosofia New Age di auto-perfezionamento, solitamente disponibile a casa in 14 videocassette pagabili comodamente a rate. C’è un’altra accezione di ascensione però, un effettivo cammino verso l’alto, una filosofia molto più terra-terra e al tempo stesso molto più spirituale, i cui principali autori (tra innumerevoli altri) si chiamano Hillary, Norgay, Compagnoni e Lacedelli.

C’è un motivo se scalare una montagna si dice ascendere.

Pur non essendo io un alpinista, e nemmeno ciò che comunemente si chiama “un appassionato della montagna”, sono sempre stato affascinato dalla sua naturale indifferenza, ma soprattutto dalla particolare varietà di follia necessaria per conquistarla. Sembra che la fascinazione dell’uomo per la montagna, o quanto meno la consuetudine con essa, abbia radici antiche; basti pensare a Ötzi, il famoso Uomo del Similaun morto circa 5000 anni fa alle pendici del monte omonimo, a oltre 3000 metri sul livello del mare. È ragionevole pensare che l’esplorazione e la conquista della montagna ai tempi di Ötzi fosse legata alla caccia o alla pastorizia, o forse alla ricerca di posizioni difendibili; sicuramente motivazioni molto diverse da quelle che spingono gli alpinisti e gli esploratori moderni. Per un certo periodo della storia umana le montagne, quantomeno le più alte, hanno avuto una funzione religiosa o superstiziosa (pensiamo per esempio all’Olimpo) e l’ascensione su queste cime aveva una connotazione iniziatica e spirituale, quando non era esplicitamente vietata, ma sicuramente non sportiva. Già intorno al 1300 ci arrivano le prime testimonianze di alpinismo “laico” e finalmente nel 1492 Antoine de Ville compì la prima scalata ufficialmente registrata, conquistando la cima del Mont Aiguille (2085 m s.l.m.) in nome del re Carlo VIII e segnando l’inizio dell’arrampicata moderna. Da allora le principali cime europee vengono conquistate una dopo l’altra, e nonostante mezzi e conoscenze limitate entro l’inizio del XIX secolo, quando viene raggiunta la cima del Breithorn, un 4000 al confine tra Svizzera e Italia, l’intera catena alpina è ufficialmente conquistata. Lo sguardo degli aspiranti esploratori si rivolge allora al di fuori dell’Europa, e cade necessariamente su quello che sta diventando il nuovo parco giochi dell’alpinismo mondiale: le Americhe. Durante il ‘900 la Montagne Rocciose in Nord America e la Cordigliera delle Ande nel Sud vengono prese d’assalto e le prime spedizioni affrontano le grandi cime africane; nel 1889 Purtscheller e Meyer raggiungono la cima del Kilimanjaro (4877 m s.l.m), nel 1899 Mackinder conquista la cima del monte Kenya (5199 m s.l.m.) e nel 1906 il Principe Luigi Amedeo, il famoso Duca degli Abruzzi che pochi anni dopo guiderà la prima spedizione italiana sul K2, raggiunge la cima più alta della catena del Ruwenzori (5109 m s.l.m.).

È solo naturale che gli alpinisti, sempre alla ricerca di nuove sfide, rivolgano allora la loro attenzione a quel tratto di montagna che, a buon ragione, è stato chiamato “il tetto del mondo”: lo Himalaya. Come sicuramente già sapete, lo Himalaya è una catena montuosa che separa il sub-continente indiano dalla massa continentale dell’Asia. O meglio, lo Himalaya è quella cosa che è successa quando circa 10 milioni di anni fa l’India si è scontrata con il continente asiatico, alzando il fondo del mare fino ad oltre otto kilometri nel cielo. Gli alpinisti d tutto il mondo ringraziano.

In meno di 50 anni tutte le principali vette vengono conquistate, tranne i famigerati 14 ottomila, le 14 cime che superano gli 8000 m sul livello del mare. La prima a cadere è Annapurna I (8091 m s.l.m.) nel 1950, e in meno di 15 anni tutte le altre cime vengono raggiunte. Il 29 Maggio 1953 sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay raggiungono per la prima volta la cima dell’Everest (8848 m s.l.m), il punto più alto del pianeta. Un anno dopo, il 31 Luglio 1954, la spedizione italiana guidata da Ardito Desio giunge in cima al K2 (8611 m s.l.m), la seconda cima per dimensioni, con gli scalatori Lacedelli e Compagnoni. È in questa occasione che si svolge una delle vicende più oscure nell’alpinismo italiano: oltre alla coppia di testa ci sono altri due scalatori, Amir Mehdi e un giovanissimo Walter Bonatti, incaricati di rifornire con bombole di ossigeno nuove il campo avanzato di Lacedelli e Compagnoni. La scelta di Compagnoni di allestire il campo a una quota superiore di quella precedentemente concordata costrinse Bonatti a Mehdi a passare una notte all’addiaccio, senza tenda o sacco a pelo, a 8100 m, con temperature che raggiungono anche i 50 sotto zero. “L’incidente” e le lesioni da congelamento riportate da Mehdi, che lo costringeranno all’amputazione di entrambi gli alluci, rischiano di rovinare l’impresa compiuta dalla spedizione italiana, e la relazione ufficiale di Desio lo riferisce solo di passaggio. Quando Bonatti raccontò la sua versione della vicenda, nell’autobiografia Le mie montagne, venne accusato di aver corrotto Mehdi per farsi accompagnare nel tentativo di raggiungere la cima prima di Compagnoni e Lacedelli, di aver usato l’ossigeno dedicato a questi in modo da sabotare le loro possibilità di salita e di aver codardamente abbandonato Mehdi in seguito al bivacco forzato, scendendo senza di lui. A seguito di un processo e grazie anche al ritrovamento di alcune delle foto scattate durante l’ascesa viene ricostruito l’accaduto; finalmente il CAI (Club Alpino Italiano) pubblica una nuova versione ufficiale, riconoscendo la posizione di Bonatti, dopo 50 anni da quella notte sul K2.

Per noi persone “normali” è difficile capire cosa possa spingere una persona ad affrontare il freddo, la fatica e i pericoli che necessariamente si accompagnano all’alpinismo d’alta quota. Non può essere la fama, perché quasi nessuno conosce i nomi degli alpinisti che hanno fatto la storia dell’alpinismo, non possono essere i soldi, dato che nessuno di questi uomini è diventato ricco, non può essere la soddisfazione di aver raggiunto la cima. Jon Krakauer (sopravvissuto ad una disastrosa spedizione sull’Everest), disse: «Avevo fantasticato tanto su quel momento e sull’ondata di emozioni che lo avrebbe accompagnato; e ora che finalmente ero lì in piedi sulla cima del monte Everest, non riuscivo semplicemente a radunare energie sufficienti per concentrarmi». Credo che l’unica spiegazione sensata l’abbia data George Mallory, tre spedizioni sull’Everest, di cui l’ultima, 29 anni prima di Hillary e Norgay, gli costò la vita:

Perché vuole scalare l’Everest?

Perché è lì.

Immagine biologia

Hillary and Tenzing | Jamling Tenzing Norgay – http://www.tenzing-norgay-trekking.de

Autore

  • Laureato in Scienze Naturali e appassionato di subacquea, è scappato sei mesi alle Maldive. Lui sostiene che stesse facendo un master, le foto con tartarughe e squali sostengono il contrario. È uno dei redattori interni della rivista e gestisce la rubrica di Biologia.