La filosofia come una delle belle arti

EDITORIALE

di Federico Filippo Fagotto

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Con l’illustre prof. Vago, rettore del pubblico Ateneo milanese, il postino ha bussato ben sette volte… si vede che non gli aprivano!

In effetti, per i sette docenti che hanno inoltrato le “lettere della discordia”, con le quali inizia la nostra storia, le porte del Dipartimento omonimo (di storia appunto) non erano di facile accesso.

A grandi linee, chi studia filosofia in Statale la favoletta la conosce già e, casomai fosse disorientato da imprecisioni, false testimonianze e tutte le allusioni che volano d’intorno ormai come sparvieri incrudeliti, be’… non sarà certo questo numero a chiarire le faccende della politica accademica.

C’è il rischio di dire sciocchezze, senza contare poi la sciocchezza più madornale: la verità.

Con La Tigre di Carta, invece, il postino ha rispettato il canovaccio, bussando due volte appena. La prima, con la mano ancora nivea (si spera) di alcuni studenti che, preoccupati dall’andazzo del Dipartimento, hanno chiesto al nostro gruppo editoriale l’offerta di uno spazio per dire la propria. La seconda, con la mano veterana e incallita – a furia di maneggiar penne, scudi e spade – di alcuni docenti, pronti ad accettare la proposta di scrivere per noi (dal verbo “accètto”, s’intende). C’è chi si è spinto fino a inviarci un articolo così, d’emblée, senza preavvisi e senza farsi pregare più di tanto.

Per La Tigre è stato un bel guaio, però. La nostra rivista non si occupa di attualità, né di politica (foss’anche accademica). Tuttavia, ignorare “l’sos-cultura” sembrava scadente, anche perché ormai la dicitura della nostra testata recita: “Periodico di Arte e Cultura”, bella fregatura! (tanto per chiuderla in poesia). E allora, il primo passo è stato una riunione interna allo zoccolo duro dei filosofastri che animano questa rivista. Il secondo, invece, rubare il lavoro al caro postino, inviando una lettera in cartaceo a ciascuno dei docenti e anche al Rettore, con una dichiarazione d’intenti atta a non venire scambiati né per cacciatori di colpi giornalistici, tantomeno per ingenui boccaloni pronti a credere al presunto dualismo “continentali-analitici”, assiepato dietro (o meglio, davanti) la sostanza politica della querelle.

Abbiamo assestato infine la nostra posizione, onde approntare questo numero speciale, al momento di pubblicare un avviso sul nostro sito, poi affisso sui muri universitari. Ci premeva evitare la nota espressione: Call for Papers, non troppo equidistante fra le vedute di filoscientisti ed epistemofobici. Di contro, anche un’italianizzazione come: “Chiamata per i fogli” sarebbe parsa la maldestra trovata di un romanzo alla Hemingway tradotto “alla vecchia maniera”. Ne nacque così una Call for Contributions, in cui si chiariva: «Tra coloro che rivolgono il pensiero all’attualità, forse non fa male che una forza parallela si impegni anche perché sia l’attualità a rivolgersi al pensiero». Perciò, gli eventuali contributi venivano invitati a muoversi nel solco di una fra tre tracce da noi proposte e basate su un pensiero filosofico che diremmo forse “puro”. Erano queste:

La contrapposizione tra filosofi “analitici” e “continentali” è fondata? Se lo è, a quale dei due orientamenti sarebbe da dare più spazio in questo momento, e perché? Se non lo è, in quali termini risulterebbe più opportuno caratterizzare l’attuale frammentazione in seno al panorama filosofico, in modo anche da avvicinarsi a una sua possibile soluzione?

Nel momento in cui la filosofia si rivolge alla scienza, quest’ultima dovrebbe essere trattata come un suo oggetto di studio oppure come un suo metodo o strumento? Come si configura il rapporto tra le due?

Qual è il rapporto tra la filosofia e la storia della filosofia? La storia della filosofia è filosofia a sua volta? In che misura si può filosoficamente fare a meno della storia della filosofia?

A questo punto, sorse l’obiezione di alcuni professori: «Il vostro numero speciale potrà essere gradevole, ma non serve a niente, perché non può entrare nel merito oltre una certa soglia». Risposta: è sufficiente che esso venga pubblicato qui e ora, affinché la circostanza dia senso a questo piccolo evento. Se avrà da arpeggiare le corde di qualcuno, infatti, lo farà comunque. I tempi sono maturi. Sarà un caso, infatti, che l’esimio staff del sito del Dipartimento di Filosofia ci abbia “sconsigliato” di segnalare la nostra iniziativa sulla homepage? Sarà un caso, poi, che uno studente, desideroso di dire la propria, ma accortosi della mal parata, abbia ripiegato su uno pseudonimo?

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La Tigre di Carta - Numero Speciale - clessidra

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Per introdurre il retroterra di questo numero speciale, di certo basta così. Eppure, il filosofo che è in colui che scrive (o meglio: colui che scrive che, per sventura, è dentro un filosofo), sta facendo a pugni con il ruolo imparziale che gli spetta. Ci si potrebbe rifugiare in una carriola di citazioni, per far brillare su altri il riflesso di pensieri propri. Ma persino la cifra della citazione – anche soltanto in proposito al rapporto tra filosofia e storia della filosofia – può rivelarsi traditrice. Sulla mongolfiera del pensiero, alcuni riferimenti fanno da zavorra, mentre la fiamma che lancia in aria il meccanismo ha da conservarsi leggera. Si tenga perciò la citazione nel fodero e si lasci soddisfare il desiderio di mettere in parole un’ideuccia soltanto, abbastanza bislacca, forse, da restare al riparo da polemiche.

La Call for Contributions si intitolava: Che pensare?, laddove – schivando l’idea di una facile soluzione all’ingannevole alternativa continentale/analitico – quel “che” sottolineava non tanto il qualis quanto il quid, vale a dire: «Qual è il succo del problema?». Qui però ci correggiamo da soli la nostra stessa bozza (“che”) e scriviamo: Come pensare?, nel senso di: «Quali sono i criteri di scelta?», o meglio: «Come si argomenta una teoria, una convinzione, o anche solo un’opinione?». Anche l’articolo di una matricola, perciò, quanto più sarà impreciso, sgangherato e disinformato, tanto meglio servirà da termometro per capire in quale misura si stia colmando il dibattito che ha offerto lo spunto per questo numero.

L’idea, in soldoni, è fingere che non ci sia il modo corretto di pensare, che filosofare non sia una corsa in diligenza verso l’Eldorado del pensiero, altrimenti i fautori della logica avrebbero di che mostrare il muscolo. Non a caso, sulla vita che non solo circonda tutto, ma che viene tanto spesso spiata con libidine proprio dalla filosofia, la logica più visibile – quella che governa azioni e certezze quotidiane – sembra spesso più diffusa che cristallina. Lo spirito della logica è certo di casa in filosofia, ma il punto è: può almeno una parte della filosofia non dover sempre dire qual è il metodo migliore per ogni cosa?

Abbiamo perciò deciso di non cancellare del tutto con la gomma la parola “che”. Il pensiero che si cerca di costruire in questo numero, infatti, è in fondo a metà strada fra il che e il come. Lungo questo faticoso cammino, si può sostare e rifocillarsi a una locanda d’eccezione: quella dell’arte!

La storia dell’estetica (e qui si tradisce un amore in chi scrive), ha spesso cercato di ridurre la questione artistica ora all’esecuzione tecnica (qui nei panni del come) ora all’opera d’arte stessa (il che), ma forse la si può vedere per una volta in questi termini: l’arte è il modo di esercitarsi nel gusto della scelta (oltre che nella scelta del gusto). Solo quando si padroneggia del tutto la tecnica, per esempio, si può scegliere in piena libertà la suggestione più fertile per ogni circostanza, e disegnare addirittura – come fecero Picasso e molti altri – con lo stile di un bambino o di un dilettante. Nell’essenza, c’è l’incontro fra esigenza e forma. Quando i due poli, per così dire, diventano isomorfi, si attivano e caricano quasi a vicenda.

Perché allora (e qui arriviamo allo scacco matto), non provarci anche in filosofia? Filosofare, cioè, nemmeno più come criterio di scelta, bensì come opzione consapevole. Mi spiego con l’etimo, senza usarlo certo come cavatappi d’inferenza ma, tutt’al più, come bicchiere: “scelta”, così come “elezione”, viene dall’ex-eligere nel senso di “raccogliere fuori”. Implica uno scarto, una estromissione, un’esclusione. Sorte migliore non ha la “decisione” (de-ceduo = “tagliare via”). Qui si parla invece di una prescelta, di un’opzione (“ottenere”, “toccare”) che, imparentata al termine sanscrito ipsita (ईप्सित), che sta per “desiderare”, ci mostra – a proposito di bicchieri – sempre la parte mezza piena. Un esercizio di ottimismo. Vale a dire: anziché un discrimine, tentiamo una filosofia anche come guida al gusto del pensare. Le tracce, cioè, di un’arte della filosofia (e non solo di una filosofia dell’arte) oppure, per dirla con il nostro sottotitolo: La filosofia come una delle belle arti.

Per coloro che amano congiungere, abbracciare, sarà la maniera con cui azzeccare ogni volta il lembo di un intero filo di ragionamenti, per ritrovarne il bandolo prima che si ingarbugli. E per quelli che amano chiarire mediante il distinguo, invece? – si chiederà giustamente qualcuno – be’, forse la filosofia sarà per lui il talento di cavare da un intricato dibattito il bastocino migliore, come a Shangai, con la sfida di non far crollare ogni volta l’intera capanna delle teorie restanti.

Il numero speciale che stringete fra le mani, in sintesi, ha questo intento: un colpo di mocio sulle polemiche, per ricordarsi che fare filosofia… è bello!

In un attimo, l’obiezione: «Può essere gradevole, ma non serve a niente», si gira sul dorso e diventa: «Può non servire a niente, ma è gradevole!». Il contorno della crisi attuale funge soprattutto da suspense, per rendere più avvincente la trama degli articoli, così che il saggio filosofico assomigli sempre più a un lavoro letterario.

E allora via!… al prossimo natale diciamo ai nostri cari di aver regalato loro un bel romanzo di formazione, per goderci la loro faccia farsi perplessa quando, scartato il pacchetto, si troveranno di fronte la Fenomenologia dello spirito! Agli amanti del fantasy, poi, regaliamo le Enneadi di Plotino, e ai cultori della fantascienza Sostanza e funzione di Cassirer. Mettiamo in scena, per una volta, quella bella tragedia intitolata: Apologia di Socrate, e alleggeriamo poi i toni con una grande commedia come gli Eroici furori. Recitiamo ad alta voce, anche per le strade, quella raccolta di poesie profonde che sono i Pensieri di Pascal, oppure pensiamo alle Confessioni di Agostino come una vera autobiografia letteraria, fino a lasciare che l’immaginazione si perda nella lettura di una fra le più maestose saghe, capace di dipingere Il mondo come volontà e rappresentazione. Infine, se fatichiamo a prender sonno, diamo una scorsa di tanto in tanto a uno dei migliori romanzi gialli mai scritti: la Critica della ragion pura.

Proprio oggi ho iniziato un saggio che adesso sarebbe perfetto da citare, ma ho fatto un giuramento e non lo vìolo. A questo punto, anonimo per anonimo, preferisco chiamare in causa un mio amico, che pochi giorni fa – parlando con me di questo argomento – mi ha scritto:

Nell’arte il “messaggio” emerge da un lavorio estetico, emerge dalla rappresentazione, ma esso non è l’elemento “ricercato”. Una filosofia, che si ponga non come argomentazione o posizione di una tesi, può seguire questa traccia lasciata dall’arte, facendo emergere il messaggio (posizione, argomentazione, tesi, ipotesi e quant’altro) come risultato di un’esplorazione, di un interrogarsi originario che si perde (si confonde con) nell’esplorazione letteraria, per portare alla luce il senso stesso del proprio interrogarsi.

Un risultato quasi involontario, oserei dire, che fa pensare a una bella metafora orientale: sulla foglia si accumula la neve, finché pesa tanto da cadere al suolo. Era nelle intenzioni della foglia? No, eppure il gesto l’ha compiuto lei! Quella neve, per noi, è la carta. Dobbiamo sentire, cioè, quanto la (pre)scelta che la filosofia sa regalare ci lasci carta bianca. O meglio, ci dia carta bianca. Non si nasce certo con carta e penna in mano: ce le dobbiamo conquistare. Rivolgiamo quindi il pensiero dappertutto e qualcosa, vedrete, uscirà da sé. A patto però di “divertirsi” (divèrtere = “volgersi altrove”, “allontanarsi”). Eh già, perché:

Solo chi non sa dove sta andando, può arrivare lontano

Anche qui, non cito la fonte. Per chi indovina, però, subito un abbonamento gratuito a La Tigre di Carta!

La parola, adesso, ai coraggiosi scrittori di questo numero speciale.

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Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!