Fuori campo

di Ibrahim Vanghelis

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Pierre Bourdieu (1930-2002) è stato sicuramente uno degli intellettuali francesi più prolifici e influenti dell’ultimo quarto del XX secolo. Sociologo di mestiere (ha ricoperto dal 1982 la cattedra di Sociologie al Collège de France), ha saputo coniugare un geniale talento teorico (a lui si devono concetti imprescindibili delle scienze sociali come “habitus” e “violenza simbolica”) a un eclettismo di ricerca quasi borgesiano. Ecco una parziale lista degli oggetti di ricerca di cui Bourdieu si è occupato durante la sua lunga carriera: comunità kabyla, famiglia, sotto-proletariato della banlieue parigina, scuola, arte, letteratura, scienza, diritto, intellettuali, sistema accademico, televisione, giochi olimpici, burocrazia, magia, moda[1]… e anche filosofia. Nel 1975, infatti, Bourdieu scrisse per gli Actes de la recherche en sciences sociales un famoso articolo in cui esaminava da un punto di vista sociologico un’opera filosofica. Quel primo studio lievitò fino alla forma di un libro: The Political Ontology of Martin Heidegger (Cambridge 1991). L’oggetto di ricerca, come si intuisce facilmente, era la filosofia di Heidegger: l’ambizione di Bourdieu era di rintracciare il profondo radicamento dei principali concetti di Sein und Zeit nella situazione socio-politica della Germania tra le due Guerre Mondiali. Che il tentativo sia stato coronato da successo o meno mi interessa poco in questa sede. Ciò su cui vorrei soffermarmi è invece l’apparato concettuale costruito da Bourdieu per descrivere la pratica filosofica – o meglio, il campo filosofico (champ philosophique). Con “campo” Bourdieu intende in generale ogni spazio sociale dotato di una precisa configurazione che struttura le possibilità di azione degli agenti sociali che lo abitano. La società in generale è una sovrapposizione (imbrication) di vari campi reciprocamente intrecciati (campo economico, politico, culturale, sportivo, religioso, ecc.). La filosofia, in quanto attività sociale che avviene in precise modalità e istituzioni, è anch’essa descrivibile nei termini di un campo.

Il campo filosofico è ulteriormente definito, prosegue Bourdieu, da tre direttrici concettuali: illusio, nomos e doxa. L’illusio indica la tendenza degli agenti sociali che entrano nel campo filosofico a ritenere la propria stessa attività come dotata di un significato. L’illusio è illusione soltanto per gli esterni al gioco del campo (i quali potrebbero per esempio trovare del tutto incomprensibile l’investimento di anni di studio fatto dal filosofo per entrare nell’accademia), mentre per i protagonisti del gioco è estremamente reale (i problemi filosofici appaiono ai filosofi come dotati di una realtà trascendente il gioco stesso – “questioni ineludibili”). L’illusio quindi non può mai essere messa in questione dall’interno del campo filosofico, non c’è modo di “andarle dietro”: farlo equivarrebbe ad abbandonare il campo stesso. Con doxa invece Bourdieu indica quell’insieme di categorie e credenze che ogni partecipante deve accettare e padroneggiare per essere riconosciuto come un partecipante legittimo del campo filosofico e non essere scartato come un mero amateur. La doxa spesso consiste in coppie antitetiche di concetti, come realismo/costruttivismo, determinismo/volontarismo, ecc. condivise dal campo filosofico in un certo momento storico. Infine, Bourdieu denomina nomos i meccanismi di inclusione/esclusione per cui alcune prospettive sono indicate come legittime, altre come non filosofiche (ma per esempio scientifiche, storiche, sociologiche, ecc.) e altre ancora come del tutto insensate. Il nomos comprende anche gli stili con cui l’attività filosofica può essere praticata e quelli con cui non può essere praticata. È importante sottolineare che nomos e doxa sono dinamici in due sensi: non solo mutano storicamente, ma variano anche da una comunità filosofica all’altra (ciò che è ammesso in Francia può non esserlo in Australia).

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A questo punto è giunto il momento di dare sfogo alla domanda che ronza in testa al lettore: perché parlare in questa sede di Bourdieu, del concetto di champ philosophique e della triade illusio, doxa e nomos? La modesta opinione di chi scrive è che questi strumenti siano degli utili dispositivi ermeneutici per decodificare cosa voglia dire fare filosofia oggi – innanzitutto mettendo l’accento sulla parola “fare” più che “filosofia”. Bourdieu ci invita infatti a considerare la filosofia “innanzitutto e per lo più” come una pratica sociale, come un’attività in un campo che ha delle regole e delle strutture. Gli agenti sociali – i filosofi – hanno, come tutti gli attori, soltanto una limitata capacità di azione sulla struttura del campo in cui agiscono (e d’altronde lo strutturalismo ci ha insegnato quasi cinquant’anni fa a diffidare di una nozione troppo ampia di libertà nelle scienze sociali). Questo non vuol dire ovviamente che il campo sia pacifico: al contrario è attraversato incessantemente da lotte e contrasti per la supremazia (come ogni altro campo sociale). Tuttavia le possibilità di azione, le traiettorie all’interno del campo, sono limitate. E può benissimo essere il caso che alcune delle fazioni in campo siano destinate a soccombere non per la forza degli schieramenti rivali, ma semplicemente perché il terreno di battaglia sta franando sotto i loro piedi.

In questo senso lo storico bourdieusien della filosofia assume il ruolo del cartografo e del geologo: il suo compito è mappare il campo, scovare le insidie, svelare i crepacci e indicare le vallate protette. Spalancare gli abissi, se necessario.

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E forse è possibile che in questo modo si possa intuire meglio il destino degli eserciti che non arruolandosi in uno di essi.

Note

[1] Cfr. R. Maggiori, “Bourdieu, premières leçons”, in Libération, 1o gennaio 2016.

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Autore

  • Di mestiere è antropologo delle religioni, ed esercita la professione tra le quattro pareti di una graphic novel che riposa da qualche anno in un armadio in attesa di vedere la luce tipografica.