Virgilio – Il Bifröst della Latinità

di Ivan Ferrari

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Per accrescere la gloria di un imperatore, Virgilio decise di coinvolgere il mito nella ricostruzione di un’intera stirpe, accresciutasi anch’essa dalle origini divine sino ai fasti della Roma imperiale grazie al “germoglio del Divo”: Cesare Augusto.

L’esagramma dell’Accrescimento descrive lo sviluppo positivo della vita, individuale o collettiva, come la caratteristica tipica di anni fertili e dinamici. In effetti, pur con tutte le loro contraddizioni e le loro soggiacenti miserie, periodi come il Rinascimento, il Settecento illuminista, i roaring twenties o gli swinging sixties hanno posto le basi di un benessere più esteso. Sono periodi in cui i popoli coinvolti sembrano afferrati da un’aria primaverile, giovane. Spesso questo comporta eccessi di varia natura che, però, sono perlopiù necessari a spezzare le catene di abitudini ormai limitanti e vuote. In un clima di diffuso ottimismo occorre un artista che si faccia portavoce del nuovo sentire. Qualcuno che dia un’ulteriore spinta all’andamento positivo dei pensieri collettivi, così da esaltarne la forza e sollecitarla verso i migliori propositi. Se costui ricorre alle leggende più arcaiche come mezzo per toccare le corde profonde dell’animo umano, allora il suo lavoro può ricordarci l’edificazione di un nuovo Bifröst, il ponte-arcobaleno che nella mitologia norrena collegava fisicamente il piano divino con quelli sottostanti.

Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, in provincia di Mantova, nel 70 a.C., anno in cui furono eletti consoli Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. I tempi che fanno da sfondo alla sua vicenda umana non sono stati un periodo felice della storia occidentale, ma le tensioni che li caratterizzarono diedero forma al massimo splendore di Roma. Sono anni di guerre civili e sconvolgimenti politici, quegli stessi drammatici eventi che segneranno la fine perpetua della vecchia Repubblica e l’inizio dell’Impero. Virgilio visse la ribellione di Cesare, la sua vittoria su Pompeo, le Idi di Marzo, la battaglia di Filippi, l’assassinio di Cicerone, la vittoria di Ottaviano su Marco Antonio e il suicidio di Cleopatra. Figlio di un proprietario terriero benestante, studiò grammatica a Cremona, filosofia a Napoli, retorica e diritto a Roma. Ispirato dall’epicureismo dei suoi maestri napoletani, dipinse idillicamente il mondo agreste nelle Bucoliche, diffondendo quel mito dell’Arcadia che avrebbe lungamente influenzato la letteratura europea. Da questa prima opera, il poeta trasse una grande notorietà e la protezione di Mecenate che gli presentò poi lo stesso Ottaviano. A Mecenate, Virgilio dedicò le Georgiche, un altro poema in stile alessandrino teso a esaltare il mondo contadino e pastorale come scuola di austerità e virtù civili. La quieta produttività dei pascoli e dei coltivi diventò l’emblema della Pax Augusti, il frutto più prezioso della potenza imperiale che proprio allora stava maturando.

Le lotte per il potere non impedirono ai romani di consolidare le proprie conquiste territoriali, né di aggiungervene altre, infondendo nuova linfa all’Ærarium. Il Mediterraneo diventò il Mare Nostrum, nel quale la pirateria non poteva più essere praticata con leggerezza, mentre sulla terraferma si continuavano a costruire ponti e strade. Merci, uomini e idee poterono allora spostarsi in sicurezza e agevolmente. La capitale diventò più florida e monumentale. Lo spazio per l’arte e la cultura abbondava. I cives potevano guardare all’avvenire con innovate aspettative, non stupisce quindi la buona accoglienza che fecero alla comparsa di un poeta vate. Virgilio s’incaricò di dare alla rigenerazione morale di Roma sulla base del mos maiorum, propagandata da Augusto, un fondamento ultraterreno. Per questa ragione scrisse uno dei poemi più belli che siano apparsi nell’orizzonte della cultura greco-romana. I dodici libri dell’Æneis sono l’auto-narrazione epica della latinità. I loro esametri dattilici sono un ponte ideale che connette il presente col passato, la Grecia con l’Italia e, soprattutto, la storia col mito. Unisce anche due modi di fare letteratura, mediando tra le lungaggini omeriche e la brevitas alessandrina, tra i ventiquattro libri dell’Iliade e i soli otto delle Argonautiche.

Fortemente voluta dal princeps, quest’opera assegnava al troiano Enea sia il ruolo di fondatore di Roma, sia quello di capostipite della dinastia giulio-claudia. Virgilio offrì un mito della fondazione che descriveva l’Impero come un agente della giustizia divina sul mondo, guidato dal discendente di un semidio. La catàbasi dell’Eneide è forse la sezione più ideologica dell’opera, poiché Virgilio vi rappresentò la dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi, asserendo l’immortalità dell’anima in opposizione al materialismo epicureo che aveva studiato a Napoli. Il poeta decise di opporre ai filosofi dei giardini un’altra figura tipica del capoluogo campano: la sibilla cumana. Sarà lei guidare Enea in un oltretomba che non è più l’omerico antro di ombre striscianti e nostalgiche dell’Odissea, ma un luogo dominato dalla giustizia divina. Nell’aldilà virgiliano esistono luoghi di punizione, come il Tartaro, e luoghi di premi, come l’Elisio. Il tutto è dominato da una concezione del fato che ricorda l’idea cristiana di divina provvidenza. Infatti, fatto salvo il libero arbitrio che rende necessarie le virtù per realizzarla, sembra esserci una predestinazione fondamentalmente positiva per tutte le anime. Tale predestinazione guida le azioni dei mortali vicini al protagonista dell’opera verso la realizzazione dell’Impero Romano, l’unico potere temporale che possa pacificare il mondo. Se Dante fece di Virgilio la propria guida per una ben più vasta e complessa discesa agli Inferi, fu perché credeva profondamente nel valore delle virtù civili elogiate dall’Eneide. Sia Dante, sia Virgilio furono capaci di dare una forte impronta politica ed etica ai propri poemi senza perdere di vista la piacevolezza estetica del verso.

È in questo viaggio, tanto angosciante quanto promettente, nelle regioni ctonie che Enea incontra il vero destinatario dell’opera: Ottaviano. L’anima del futuro imperatore Augusto si trova, infatti, in compagnia di quella di Romolo, fondatore e primo re della città eterna. In base al meccanismo della metempsicosi ipotizzato in questa stessa sezione, le anime degli uomini ancora di là da venire al mondo attendono nell’aldilà la propria nascita. Queste due persone, destinate alle più ampie glorie, si rivelano discendenti dello stesso Enea. L’ipotesi crea una continuità ancora più netta tra il mito e la storia di Roma, una continuità materiale, familiare e sanguigna che fa di Augusto un uomo la cui natura non è esclusivamente umana. Virgilio aprì così la strada a quello che in seguito sarebbe stato il culto divino riservato agli imperatori, i quali cesseranno di considerare il proprio ruolo come quello di un mero primus inter pares.

Virgilio però non era un cortigiano acriticamente devoto ai suoi benefattori. Era piuttosto un convinto sostenitore della moralità augustea. La pietas di Enea, la sua devozione verso gli dèi e il suo rispetto verso gli uomini, doveva fungere da modello per tutti i cives. La razionalità, la pazienza, la lealtà, il coraggio, la clemenza e l’austerità sono esaltate come le somme manifestazioni della virtus. Diversamente dagli eroi omerici, Enea non cerca la guerra o altre imprese al fine di guadagnarsi gloria e fama, ma è pronto ad affrontare ogni fatica per compiere il suo dovere nei confronti del fato. È un uomo che sa dubitare, che spesso ha bisogno di riflettere e che sente su di sé il peso di un atto creativo, qualcosa di più complesso di un atto distruttivo come quella Guerra di Troia dalla quale è scampato. La dinamica principale del poema è il concetto della contrapposizione tra forze di natura irriducibilmente diversa. La pietas si contrappone totalmente al furor, incarnato da Didone e Turno, personaggi che non appaiono affatto malvagi, ma che tendono ad agire in preda all’emotività. Il limite della politica sostanzialmente reazionaria di Augusto fu che la società stava effettivamente cambiando e nessuna opera letteraria poteva impedirlo. Tuttavia, l’aver restituito ai romani una certa idea di se stessi e del proprio passato fu utile a rinvigorire il loro desiderio di pace, bellezza e giustizia.

Segue il passo1 nel quale finalmente Enea ha l’occasione di penetrare i segreti dell’Erebo fino a vedere con i suoi occhi l’aspetto di Augusto, cifra del fausto futuro della propria discendenza. Il testo si spinge a prefigurare una nuova età dell’oro che dal Lazio si diffonderà nel mondo.


Note:
1. Publio Virgilio Marone, Eneide, Libro Sesto, passi 935-972, trad. it. di Giuseppe Albini.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.