Oltre la grande acqua

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 di Matteo Costanzo

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Nelle trame di molte opere liriche non mancano certo misfatti da emendare. Tuttavia, un vero emendamento, soprattutto nel segno dell’amore, ha luogo sia nel Trovatore verdiano che in un’opera meno nota di Mozart. In entrambi, la colpa proviene dai padri e dalle madri.

Anche questa volta l’I Ching ci pone una sfida non indifferente. Trovare infatti qualcosa di completamente coerente con l’esagramma Ku (L’emendamento delle cose guaste) è, almeno nel campo d’interesse di questa rubrica, discretamente difficoltoso. Del resto, spesso le varie trame dei libretti d’opera contengono una grande varietà di “cose guaste”, che raramente si emendano (ciò forse in virtù di una maggiore drammaticità). Basti pensare a Don Giovanni: quante nefandezze, che vita dissoluta! Eppure Giovanni rifiuta l’emendamento: «Pentiti! No! Pentiti! No! Sì! No!» [1]. Si veda anche la figura di Scarpia, nella Tosca: il governatore, dopo aver fatto arrestare e condannare a morte il protagonista e ingannato la fidanzata di lui facendole credere che avrebbe liberato il suo amato se si fosse concessa, trova la morte per mano di lei. Non dunque un emendamento, ma forse piuttosto un senso di giustizia (presto deluso dalla morte anche del protagonista e la sua compagna).

Si badi anche al fatto che Il Libro dei Mutamenti fornisce un riferimento molto preciso: riparare quello che fu guastato dal padre, riparare quello che fu guastato dalla madre. A tal proposito si sarebbe forse potuto indulgere sul Trovatore: non è forse una madre colei che dà luogo a una “cosa guasta”? In questa affascinante opera, dalla trama a dir poco complessa, una zingara viene condannata a morte con l’accusa di aver stregato il figlio di un conte. La presunta strega, morente sul rogo, si rivolge alla figlia: “Mi vendica!”. Così questa, di nome Azucena, rapisce il figlio del conte per gettarlo tra le braci ardenti del rogo ormai spento. Ma ecco che, appena compiuto il misfatto, si accorge di aver ucciso non già il figlio del conte, ma il suo stesso! Decide quindi di crescere l’infante come suo, coltivando in lui l’odio per la famiglia del conte. Passano gli anni, e prende il potere un altro figlio del conte, mentre il figlio di Azucena diventa un trovatore (cantastorie). Il nuovo conte si scontra presto con Manrico (suo fratello, allevato da Azucena) a causa di una donna, la bella Leonora che, innamorata del trovatore, non ricambia le sue attenzioni. Dopo un susseguirsi di molte vicende, Leonora si uccide e il conte condanna a morte Manrico; durante l’esecuzione Azucena si leva: «Egli era tuo fratello!… Si vendicata, o madre!» [2]. Ebbene le cose guaste sono certamente prodotte da padri e madri: il conte padre che condanna ingiustamente la madre di Azucena, ed Azucena stessa, che si leva contro un neonato, una creatura pura, per vendicare l’ingiusta morte della madre (molto interessante quello che si potrebbe definire un “ossimoro di natura onomastica” derivante dal contrasto tra il nome di Azucena, che significa “giglio” – fiore tradizionalmente simbolo di purezza, e le sue azioni efferate). Ma non v’è alcun emendamento di queste cose, esse sono portate, come nella maggior parte dei casi, quasi al loro esasperato deteriorarsi, in modo che la narrazione possa dirsi tragedia: la “sublime riuscita” prospettata dall’I Ching non può dirsi propria del Trovatore, se non nell’intento vindice di Azucena.

Dopo lungo peregrinare tra le pagine della musica colta, abbiamo finalmente trovato qualcosa che ci desse soddisfazione: Idomeneo, di W. A. Mozart (K 366, composta nel 1780).

Quest’opera, forse una tra le meno rappresentate (la prima al Teatro alla Scala di Milano solo nel 1968), sebbene di rilievo (Riccardo Muti la definì come una «summa dell’opera seria di fine Settecento»), narra delle vicende di Idomeneo, re di Creta, il quale, per ottenere il rientro in patria delle sue navi (impedito da una tempesta), si vota a Poseidone, promettendogli in sacrificio la prima persona che incontrerà giunto a terra.

Tranquillo è il mar, aura soave spira

di dolce calma, e le cerulee sponde

il biondo dio indora, ovunque io miro,

tutto di pace in sen riposa, e gode.

Io sol, io sol su queste aride spiagge

d’affanno e da disagio estenuato

quella calma, oh Nettuno, in me non provo,

che al tuo regno impetrai.

Oh voto insano, atroce!

giuramento crudel! Ah qual de’ numi

mi serba ancor in vita,

oh qual di voi mi porge almen aita? [3]

Ed ecco giungere Idamante, suo figlio, che si apprestava alla spiaggia credendolo ormai naufrago. Come si può facilmente immaginare, Idomeneo non rispetterà il giuramento fatto al dio del mare, scatenando così le sue ire, che si traducono nell’invio sulle spiagge di Creta di un mostro marino. Idomeneo annuncia allora al popolo cretese il suo segreto, mentre Idamante si accinge a rischiare la vita per uccidere il mostro e fugare così una catastrofe per l’intera città. È proprio durante i preparativi per compiere al fine il sacrificio che giunge il consigliere Arbace per annunciare che Idamante ha ucciso il mostro. Ma il voto deve comunque essere rispettato e il re, sollecitato dal figlio, pronto a sacrificarsi affinché non si scatenino le ire dei numi, si accinge a compierlo. In un rapido susseguirsi di eventi, Ilia, figlia di Priamo, condotta prigioniera a Creta e innamorata di Idamante, si offre in sua vece come vittima, quando s’ode giungere una voce dal cielo:

Ha vinto Amore… Idomeneo

cessi esser re… lo sia Idamante… ed Ilia

a lui sia sposa, e fia pago Nettuno,

contento il ciel, premiata l’innocenza [4].

Segue la disperazione di Elettra, figlia di Agamennone, anch’essa innamorata di Adamante, e l’abdicazione di Idomeneo. La città è salva, i numi hanno ricevuto soddisfazione e il popolo inneggia felice all’amore e ai nuovi sovrani.

Quest’opera sembra fare proprio al caso nostro: «Riparare quello che fu guastato dal padre. Si incontra lode» [5], come la incontra Idamante nell’affrontare il mostro scatenato da Nettuno a causa della negligenza del padre nel non voler assolvere al voto fatto. E ancora: «L’emendamento delle cose guaste ha sublime riuscita. Propizio è attraversare la grande acqua» [6]. Quale caso migliore? Idamante riesce perfettamente ad “emendare” la situazione venutasi a creare, e ne riceve salva la vita, il trono di suo padre e l’unione con la donna amata: proprio una sublime riuscita! In ultimo è interessante anche la figura dell’attraversamento della grande acqua, che simboleggia l’affrontare lavoro e pericolo e che può benissimo identificarsi con un mostro marino (e quindi acquatico!) inviato dal dio del mare (la più “grande” delle acque!).

Dal punto di vista musicale, un rilievo curioso (ma non nuovo ai nostri lettori – vedi il numero di ottobre su Shêng – L’Ascendere) è l’utilizzo (come spesso accade in Mozart) di una voce femminile per l’interpretazione del personaggio maschile di Idamante. Tale impostazione fu modificata dallo stesso Mozart per un’esecuzione del 1786, insieme a una revisione generale che comprendeva parecchi tagli all’opera originale. Ne deriva il fatto che è oggi possibile apprezzare diverse versioni che prevedano l’utilizzo di voci maschili o femminili per la parte del protagonista, con il grande vantaggio di avere la consapevolezza che, in ogni caso, la partitura è stata scritta dall’autore stesso. Per quanto all’impostazione dell’opera, si consiglia di confrontare due versioni, entrambe produzione del Teatro alla Scala di Milano per la tradizionale prima della Stagione d’opera nel giorno di Sant’Ambrogio: diretta da Riccardo Muti nel 1990 e diretta da Daniel Harding nel 2005. Nella prima si potrà assaporare il gusto tradizionalmente purista e tradizionalista di Muti, in una versione integrale dell’opera, basata su una rilettura della partitura originale del 1780; mentre Harding ne offre una versione più “agile” e “snella”, in una sferzata di rinnovamento dopo diciannove anni di direzione del grandissimo Maestro. Vi lasciamo dunque con il buon proposito di considerare queste due versioni, di cui la seconda fu ripresa, per la direzione di Myung Whun Chung, nel 2009, e con una piccola curiosità: è di Idomeneo la famosa marcia usata da Stanley Kubrick per il suo celebre film Barry Lyndon. Diciamo pure che, forse, Idomeneo non è poi tanto sconosciuto…

[1] Lorenzo Da Ponte, Il Dissoluto Punito ossia Il Don Giovanni, 1787.

[2] Salvadore Cammarano e Leone Emanuele Bardare, Il Trovatore, 1852.

[3] Giambattista Varesco, Idomeneo, 1780.

[4] Ibidem.

[5] I Ching, a cura di Richard Wilhelm, tr. it. di Bruno Veneziani e A.G. Ferrara, Adelphi Edizioni, Milano, 2014, p. 122.

[6] Ivi, p. 120.

Autore

  • Ufficialmente il suo nome è Matteo Mario Cesare Costanzo, ma dato che sembra un patrizio d’età tardo romana, vi basterà chiedere di Oscar. Oltre a esperienze nello studio della Giurisprudenza e della filosofia, vive la passione per la musica lirica grazie all’amata zietta, ex cantante del coro della Scala, che adesso gorgheggia all’Auditorium.