L’immagine della colpa

 

di Federica Griziotti

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Che l’emendamento passi attraverso una camminata lungo la muraglia cinese, uno sguardo in silenzio oppure abbia luogo sopra una catasta di ossa e brandelli di carne, Marina Abramović incarna, in tutti questi casi, la figura versatile e intensa dell’artista moderno.

Durante l’estrazione del tema di questo numero della rivista è stato mio personale compito tirare le famose tre monete necessarie per decretare l’esagramma dell’I Ching  che noi autori avremmo dovuto interpretare e devo ammettere che – come spesso succede per i motivi più diversi – mi sono sentita molto in imbarazzo. Ho pensato: «Ecco, certo, tutti i miei colleghi hanno sempre fatto uscire segnali celestiali di ascesa inarrestabile, arrivo io e capitano ombrosi messaggi di sciagura, statisticamente sicuro». Come se il tutto avesse qualcosa a che vedere con me! Decreto personalmente fulminante: L’emendamento delle cose guaste. Ciotole di vermi, marciume, immutabili linee fisse che non promettono niente di buono… Come un piccolo e insopportabile Calimero, stavo per essere presa dallo sconforto, ma poi mi sono fermata, ho letto a fondo la sentenza dell’I Ching e mi sono accorta che spesso queste creazioni controverse ci offrono le situazioni più cariche di potenzialità. Certo, ci sono le cose guaste, ma è l’emendamento il centro del messaggio e non appena mi sono soffermata sulla portata questa parola sono stata felicissima, perché ho capito che mi avrebbe permesso di riflettere in questa sede su un’artista che amo profondamente: Marina Abramović.

Immagine pittura

Artista serba-montenegrina, potentemente controversa, protagonista negli anni Settanta dei primi vagiti della Body e Performance art, Marina si distingue non tanto per essere una voce fuori dal coro della società, comune contrassegno degli artisti di Performance, ma piuttosto come l’unica della sua neoavanguardia che fino a oggi è rimasta attiva artisticamente nel mondo contemporaneo. Non voglio annoiarvi con troppo brevi e superficiali carrellate biografiche.

In molti avrete visto il famoso film-documentario che la ritrae nel suo capolavoro del 2010, The Artist Is Present,  al MoMa di New York. Si tratta di un omaggio a tutti gli anni di carriera della Abramović, ripercorsi grazie a una selezione di sue celebri performance reinterpretate da giovani artisti selezionatissimi da Marina, dopo un periodo di training psico-fisico molto duro, unite poi a video e fotografie originali. Oltre al progetto celebrativo, questa è stata l’occasione per presentare The Artist Is Present,  performance svolta da Marina in persona. Nel tentativo anche provocatorio, ça va sans dire,  di avvicinare le grandi masse di pubblico all’arte contemporanea, Marina ha trascorso, per tre mesi, ogni giorno seduta su una sedia. Se ne stava ferma immobile, dando l’occasione a chiunque volesse di sedersi di fronte a lei e di connettersi in modalità immediata, tramite il più potente degli strumenti comunicativi dell’essere umano: lo sguardo. Solo uno sguardo poteva essere il veicolo per interfacciarsi con l’artista, al fine di instaurare un dialogo energetico. Le parole non rendono giustizia al sublime fenomeno artistico che ha preso vita in questa sede:  invito tutti alla visione del film. Tutti i giorni a tutte le ore del giorno (ore di apertura del museo ovviamente!), l’artista è rimasta fisicamente presente per chiunque volesse avvicinarla e per chiunque avesse la pazienza di sopportare interminabili ore di fila creatasi per questo fenomeno. Alcuni, addirittura, hanno deciso di aspettare tutta la notte sotto le stelle, all’entrata del MoMa, pur di garantirsi l’occasione di entrare a farne parte.

Tra i vari partecipanti alla performance riconosciamo Ulay (Uwe Laysiepen) protagonista di una scena strappalacrime: Ulay è stato il compagno artistico e personale di Marina per i primi dieci anni della sua attività di artista, dal 1975 all’88 circa, poi, per motivi personali, la loro relazione si è completamente conclusa. Ma due artisti di Performance art non posso semplicemente discutere e realizzare di volersi lasciare e smettere di lavorare insieme, come farebbe chiunque altro. No!, due artisti così vogliono rendere un’opera d’arte questa scelta di vita. Infatti, decidono di intraprendere la traversata a piedi dell’intera Grande Muraglia Cinese, partendo dai due capi opposti, uno dall’estremo del Deserto del Gobi e l’altra dalle coste del Mar Giallo, incontrandosi nel mezzo dopo circa novanta giorni di cammino e, dopo essersi salutati, concludere la marcia ognuno nella propria direzione. Un bel simbolo.

Dopo infinite contrattazioni con il governo cinese, nel 1988 Marina e Ulay ottengono finalmente l’autorizzazione per la performance che prende il nome di The Lovers/The Great Wall Walk. Ed è proprio durante la performance al MoMa, ben ventidue anni dopo, che Ulay decide di presentarsi davanti a Marina come gesto di riconciliazione, e noi possiamo assistere a questo sguardo di malinconia, memoria, tristezza e perdono. In un recentissimo articolo (novembre 2015) di Artnet news[1], purtroppo, è stato distrutto questo bel ricordo perché apparentemente Ulay avrebbe in seguito fatto causa a Marina per delle royalties a lui non riconosciute… Che amarezza!

Ma, lasciando da parte questi gossip, in realtà il suo progetto più inerente a questo numero è probabilmente la sua performance più incisiva, commovente e disturbante: nel 1997 Marina Abramović riceve il Leone d’Oro come Migliore Artista alla Biennale di Venezia con Balkan Baroque: «direttamente ispirato alla guerra in Jugoslavia»[2], ma riferibile agli orrori della guerra in maniera universale. La performance si presenta in modo molto cruento: è una metafora vivente che vuole rappresentare la pulizia della coscienza. Come se volesse mondare la coscienza del suo popolo, l’artista trascorre sei ore al giorno, per tre giorni, a disossare brandelli di carne da ossa animali, accatastate nel sotterraneo del padiglione Montenegro della Biennale. L’odore è insopportabile, nauseante e la visione di Marina avvolta in un abito bianco, seduta in cima a questa montagna di carcasse, rimane indelebile nella memoria degli spettatori che hanno avuto la fortuna di vederla dal vivo. Con una spazzola metallica Marina ripulisce le ossa dai brandelli di carne e sangue, mentre sullo sfondo del padiglione diversi schermi trasmettono testimonianze, storie narrate dai suoi genitori, canzoni e litanie appartenenti alla tradizione serba. L’impatto è indimenticabile.

Questa performance evoca «un doloroso rito di purificazione»[3] in modo fortemente simbolico e spirituale. Inoltre celebra le vittime del paese d’origine dell’artista, devastato dalla guerra, ma soprattutto ne rende nota la tragedia in un’opera immortale, frutto di profonda riflessione. «Ciò che fu guastato per colpa degli uomini può essere di nuovo emendato dal lavoro degli uomini», dice l’I Ching. In tal senso, Balkan Baroque è un tentativo riuscito. È un vero e proprio rito profondamente catartico che comporta un sacrificio fisico e mentale senza pari, di impatto decisamente diverso rispetto, ad esempio, alle notizie giornalistiche rispetto alle quali spesso siamo inerti. «Al posto dell’indifferenza e dell’ignavia che hanno condotto alla corruzione, devono intervenire risolutezza ed energia, perché alla fine possa seguire un nuovo inizio».

Chi crede che la Bellezza salverà il mondo, chi crede a Dostoevskij, deve continuare a lottare, studiare e insegnare, soprattutto in questi giorni che seguono l’attentato di Parigi, giorni di lutto, paura e rabbia cieca. Un’immortale tela francese di Eugène Delacroix è lì a ricordarci che deve essere la Libertà a guidare il popolo:  soprattutto oggi che piangiamo i morti parigini, il dolore ci sovrasta e ci sentiamo impotenti, ricordiamoci una frase di un film assai controverso: «Le monde est à nous»[4] .

 

[1] https://news.artnet.com/people/ulay-sues-marina-ambramovic-amsterdam-362099

[2] E. De Cecco, G. Romano, Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, Postmediabooks, Milano 2002, p. 89.

[3] Ibidem.

[4] L’odio (La Haine, Mathieu Kassovitz, 1995).

 

Autore

  • Una laurea in Scienze dei beni culturali, una Summer School a New York e il lavoro a Milano presso una galleria d’arte non l’hanno resa incapace di parlare insieme a te dei quadri con lo stesso entusiasmo di una alle prime armi.