Il cinema della malora

 

di Amedeo Liberti

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Il marcio non è sempre all’inizio e l’emendamento, se c’è, non viene sempre alla fine: Terry Gilliam sovverte le regole narrative forse anche per obiettare qualcosa ai canoni prefissi della morale. Non c’è suo film in cui i personaggi non debbano confrontarsi con un mondo guasto.

 

Sam: «Suppongo che questa riparazione mi verrà a costare cara».

Tecnico del riscaldamento Tuttle: «Si sbaglia, non lo faccio per soldi, lo faccio perché

è emozionante, perché è bello vedere posti nuovi, entrare e uscire dalle case, aiutare chi

è in difficoltà…».

Brazil, Terry Gilliam (1985)

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Andare a vedere un film di Gilliam significa passare qualche brutto quarto d’ora. No, non si tratta di un giudizio estetico. La malora è proprio l’oggetto della sua trattazione filmica, tanto che oserei dire che l’esagramma numero 18 dell’I Ching, l’Emendamento delle cose guaste, dovrebbe essere impresso nei titoli di testa di molte sue pellicole, visto che i protagonisti delle sue storie sono chiamati a porre riparo a qualcosa di irrimediabilmente guasto.

Nulla di nuovo si potrebbe dire. Gli eroi provvedono ai guasti del mondo almeno dai tempi dell’Epopea di Gilgamesh. E invece Gilliam è un narratore decisamente anticlassico. Nello stile narrativo tradizionale, ad esempio, si procede di solito mostrando una realtà normale che solo poi guasta e si rovina, affinché, nel corso del racconto, l’eroe possa porvi riparo e ristabilire l’ordine. Il ritmo della narrazione classica (non solo letteraria ma anche filmica) segue insomma lo schema: norma, rottura della norma (guasto), ristabilimento dell’ordine (emendamento).

Gilliam, al contrario, procede calando immediatamente lo spettatore in medias res  o, per meglio dire, “in medias malas res”.  È noto che uno dei problemi di chiunque abbia a che fare con un’audience riguarda l’inizio di qualsiasi opera: la captatio benevolentiae. Questo non è il problema di Gilliam, anzi direi che il suo problema sia, all’opposto, quello della “captatio malevolentiae”. Si direbbe che il procedimento creativo di Gilliam risponda a questa domanda iniziale: in quale situazione orribile, assurda, allucinante o ripugnante  posso calare fin dall’inizio gli spettatori perché abbiano tutta la mia attenzione?

Una serie di inquadrature grottesche ci restituiscono, fin dai primi istanti dei suoi film, un’atmosfera guasta. Cose, scenari, personaggi e ambienti, nei film di Gilliam appaiono subito sotto una luce perversa; gli oggetti e i soggetti, ad esempio, sono spesso ripresi da prospettive deformanti o fuori scala, simili a quelle che prediligeva O. Welles.

Si potrebbe dire che lo schema ricorrente in molti film di Gilliam è affine a quello utilizzato dall’Alighieri che, nella Commedia, comincia con il peggiore degli inizi: l’Inferno. Del resto, Gilliam è profondamente affascinato dal Medioevo, periodo storico che egli accoglie artisticamente nella sua concezione (antistorica) di epoca “guasta” e di decadenza per eccellenza [1].

L’ambientazione medievale di Jabberwocky (1977) e l’inizio del film sono già significativi del gusto per il “guasto” di Gilliam. Un cacciatore compie una ricognizione nella foresta allo scopo di controllare se le sue trappole hanno catturato qualcosa. Dopo aver ucciso vari animaletti e un coniglio, una plongée – cioè una ripresa dall’alto – ci fa capire che lo sventurato è incappato in qualcosa di più grosso di lui, il mostruoso Jabberwocky, che poi gli riserverà la stessa fine che lui avrebbe elargito alle bestiole. A rivelarsi guasto non è solo il “non-luogo” medievale per antonomasia, ossia la foresta, ma anche il suo contraltare ambientale: l’urbe. Mercanti e clero approfittano del Jabberwocky per speculare sui prezzi e per riempire l’offertorio della messa. Mentre il potere politico, rappresentato dal re, non sa far altro che creare occasioni per escludere il popolo (nelle sicure mura entra solo chi è abbastanza ricco), tagliare teste e dare luogo a sanguinosi tornei. Ma anche le percezioni del protagonista appaiono guaste. Basti dire che quest’ultimo trova bellissima e desiderabile un’enorme “Dulcinea” mangia patate, dotata della stessa sensibilità di un rutto di Alvaro Vitali, e si dispera quando gli tocca  l’onere di sposare una bella principessa.

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Una scena del film Brazil

La critica del potere s’intensifica nel terzo film di Gilliam, pervaso di atmosfere gotiche con sprazzi steam-eletcro-punk: Brazil (1985). Qui da emendare sono i guasti del sistema politico. Una tecno-burocrazia ha preso il sopravvento per rendere la vita e ogni attività umana impossibile. Per di più, gli oggetti e i meccanismi finiscono spesso col rompersi, causando non poche difficoltà agli abitanti che non possono nemmeno ripararli senza compilare assurdi moduli (ci sono pure le ricevute delle ricevute). I guasti diventano drammatici quando a incepparsi sono i dispositivi del potere che, a causa di questi errori, persegue gli innocenti. Persino la madre del protagonista può essere presa come simbolo di un mondo in cui a guastarsi non sono solo le relazioni tra gli uomini, dominate dal carrierismo e dall’ipocrisia, ma anche i corpi stessi: ogni volta che la incontriamo è alle prese con un chirurgo plastico e con le complicazioni legate a un’operazione estetica inutile. Sam, il protagonista, gradirebbe restarsene nel suo grigio cantuccio, ma deve sovente porre rimedio all’incompetenza del suo capo e, in uno dei suoi incarichi, finisce col mettersi nei guai, perché vorrebbe porre rimedio a  un errore giudiziario, occorso a un condannato a morte, la cui giovane vicina è nientemeno che la donna dei suoi ricorrenti sogni.

Nel successivo La leggenda del re pescatore (1991) a guastarsi sono le vite di Jack e Perry. Il primo (Jeff Bridges) è un brillante conduttore radiofonico. Un pazzo, suggestionato da una sua invettiva, compie una strage. Jack perde il lavoro e quasi l’equilibrio mentale. Equilibrio che viene invece del tutto meno in Perry (Robin Williams), un professore esperto di Medioevo la cui moglie è stata uccisa sotto i suoi occhi nella sopraccitata strage. I due si incontreranno fortuitamente anni dopo tra i clochard e Jack avrà modo di emendare le sue colpe.

Ne L’esercito delle 12 scimmie (1995) a essersi guastata è l’intera umanità, nonché la superficie terrestre. Un biologo, fanatico del Medioevo e dell’apocalisse, ha liberato un virus mortale che ha di fatto quasi estinto la razza umana. Gli ultimi uomini sopravvivono nel sottosuolo. Il protagonista (Bruce Willis) deve tornare indietro nel tempo per comprendere come sono andate le cose e impedire l’ecatombe.

In Paura e delirio a Las Vegas (1997) quel che si è guastato è il sogno della beat generation. Non a caso il film inizia con immagini dell’America reazionaria di Nixon. Ai protagonisti non resta che rifugiarsi nell’abuso di droghe, per sfuggire a un sogno americano che si è trasformato in un grottesco circo consumistico per crudeli soggetti piccolo borghesi.

In Tideland (2005)  a essere guasta è la famiglia. Immaginate di essere una specie di piccola carrolliana Alice, ma a vivere “nel paese delle meraviglie” non siete voi, bensì i vostri genitori tossici. Vostra madre, bipolare come la regina di cuori, muore precocemente. Vostro padre vi riporta nella casa avita, in un’area rurale degli States, ma muore l’ennesima volta che gli preparate una dose perché si goda le sue “vacanze”, e a voi non resta che parlare con delle teste di Barbie. A porre riparo alla situazione sono due vicini che definire strambi sarebbe poco. Una è un ex-amore di vostro padre che lui ha abbandonato in gioventù e che perciò ha sviluppato la stessa sana passione di Anthony Perkins in Psycho: la tassidermia. L’altro è il giovane fratello di lei, epilettico e un po’ tocco, nonché in possesso di candelotti di dinamite. Li farà brillare sotto un treno, dandovi la possibilità d’incontrare una donna apparentemente sana di mente.

Già, perché nei film di Gilliam la lieta fine non è scontata e, soprattutto, l’emendamento di ciò che è guasto si compie solo al prezzo di incappare in guasti peggiori.

Immagine cinema

[1]Ambienti e atmosfere medievali non solo ricorrono in alcuni film realizzati assieme ai Monty Python o in Jabberwocky (il suo primo film solista), ma verranno ripresi, talvolta anche solo allusivamente, in film apparentemente distanti dal Medioevo, come Brazil, La leggenda del re pescatore e L’esercito delle 12 scimmie.

 

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.