Il numero che non c’è

di Gabriele Pichierri

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L’atto di emendare come tabula rasa avviene, in matematica, attraverso il ricorso al numero zero. Per la sua caratteristica nichilista, tuttavia, questo numero ha dovuto affrontare molte traversie, dall’India e attraverso il Medio Oriente, per vedersi riconosciuto.

Questa volta sembra che l’I Ching abbia finito con le lusinghe e cominciato con i rimproveri. Il testo cinese si riferisce forse a quelle volte in cui ho lasciato il lettore a mani vuote dopo avergli promesso che avrei trattato un certo argomento in un numero successivo? Se l’ordine è di rimediare lo farò, ma non senza un filo di ironia. Giusto nell’ultima pubblicazione, ho promesso un articolo sul numero zero. Ebbene, è proprio vero che questo affascinante concetto porta con sé non poche sozzerie, e che intorno a esso i matematici hanno peccato di eccessiva passività.

Ricorderete dal numero precedente come l’umanità abbia cominciato a usare concetti numerici avanzati almeno 4000 anni fa. E allora, a noi figli dell’era digitale fatta di “zeri” e di “uni”, può sembrare incredibile e perfettamente assurdo che lo zero sia stato considerato come numero vero e proprio solo nel VII secolo d.C., in India, e che nel mondo occidentale sia stato attivamente evitato fino al XIII secolo, se non addirittura bandito. Se poi si scopre che, a dire la verità, un simbolo per lo zero comparve almeno nel IV secolo a.C., presso i babilonesi, la questione si fa ancora più imbarazzante. Cosa ci ha fatto perdere tutto questo tempo?

Tanto per cominciare, può sorprendere l’enorme intervallo temporale fra l’introduzione di tutti gli altri numeri e quella dello zero. Il fatto è che le civiltà antiche manipolavano i segni numerici in una maniera che non richiedeva l’utilizzo dello zero neanche come simbolo o come cifra, per non parlare di numero vero e proprio. Ad esempio, l’antichissimo sistema egizio di geroglifici ricorreva alla ripetizione di una sequenza di simboli corrispondenti a 1, 10, 100, 1.000, 10.000, 100.000, 1.000.000, come accadde poi nel sistema di numerazione romano. Il punto chiave è che la posizione dei simboli non forniva alcuna informazione sul valore che essi rappresentavano. Il passo cruciale verso l’uso dello zero fu allora proprio l’introduzione del sistema posizionale, nel quale la posizione dei simboli determinava il loro valore. Nel nostro sistema numerico, che è posizionale, c’è una bella differenza tra il simbolo 1 che compare in 12 e lo stesso simbolo 1 che compare in 1234: nel primo caso indica una decina, nel secondo una migliaia. Incidentalmente il nostro sistema posizionale è decimale, pertanto, quando scriviamo un numero, la prima cifra da destra conta le unità (100=1 è un’unità), la seconda da destra conta le decine (10¹=10 è una decina), la terza quante centinaia ci sono (10²=100 è una centinaia) e così via, ma la scelta del numero dieci è in realtà totalmente arbitraria. Il sistema posizionale fu introdotto indipendentemente dai babilonesi nel IV secolo a.C. (loro usavano un sistema a base sessanta), dai cinesi nel III secolo a.C. (come sistema a base dieci perfettamente simile al nostro) e dalla civiltà Maya, sviluppatasi a partire dal 500 d.C. (in un sistema a base venti ibrida). Riflettendoci bene, è evidente il motivo per cui il sistema posizionale, in qualsiasi base, richiede l’introduzione di un simbolo che faccia solo da “segnaposto”. Non a caso i babilonesi presero immediatamente a servirsene: se devo scrivere seicentodue (usiamolo pure del nostro sistema decimale al quale siamo abituati) e non ho un simbolo “nullo”, come faccio a comunicare che non ci sono decine? Potrei scrivere 6 2,  lasciando semplicemente uno spazio, ma buona fortuna allora nel distinguere il seimiladue dal seicentomiladue. No, serve un simbolo che ci dica: «Nel posto delle decine non metterci niente». Ma se i babilonesi dovettero convincersi quasi subito della sua utilità, continuarono comunque a usare lo zero solo come segnaposto, e mai come risultato di operazioni come: 7 – 7.

Anzi, sicuramente il ritardo nell’uso dello zero come lo conosciamo noi non si può giustificare solo come conseguenza delle scelte di rappresentazione dei numeri e neppure dell’uso che di questi si faceva nelle civiltà antiche, perlopiù  misure dei campi, astronomia, geometria, contabilità o altre pratiche economico-amministrative. Oltre al fatto che i sistemi di numerazione greco e romano erano essenzialmente più arretrati di quello posizionale, ha senza dubbio giocato un ruolo cruciale una certa diffidenza e inquietudine del mondo occidentale nei confronti del concetto di nulla e di vuoto che questo simbolo richiamava: basti pensare che la parola caos in origine significava vacuità e indeterminazione, a indicare il disordine che si associava al nulla come all’illimitato. Lo zero si scontrava a priori con i presupposti filosofici dei greci, che consideravano numeri e filosofia inseparabili: per Aristotele, ad esempio, il nulla non aveva né cause, né effetti, per cui era un elemento incollocabile in una struttura logica.

Probabilmente fu solo nel 331 a.C., quando Alessandro Magno conquistò ciò che rimaneva dell’Impero babilonese, che i greci scoprirono la funzione dello zero e presero a indicarlo col simbolo 0, forse derivante dalla prima lettera di οὐδὲν,  ovvero “niente”. Esso veniva usato soprattutto dagli astronomi e dai mercanti. La classe dominante greca disprezzava il calcolo, dove il simbolo dello zero si dimostrava più utile, e si occupava prevalentemente di geometria, disciplina nella quale esso sembrava avere poco da offrire. Va ricordato che i numeri erano considerati dai greci essenzialmente come oggetti geometrici, perciò, anche dal punto di vista puramente matematico, lo zero presentava dei comportamenti davvero fastidiosi, già a partire dalla più semplice operazione di addizione. L’assioma di Eudosso e Archimede afferma che addizionando una quantità con se stessa tante volte quanto basta è possibile eccedere qualsiasi altra quantità. L’assioma fu originariamente formulato in termini di aree e un’area nulla non aveva senso per i greci. Oggi il teorema è formulato in questi termini: dato un numero x reale e positivo, e un altro numero y a esso maggiore, esiste sempre un numero naturale n tale che x+x+…+x > y,  dove si è sommato x un numero di volte pari a n. Invece, lo zero si rifiuta di aumentare: 0+0+…+0 = 0; esso non modifica nessun altro numero né sommandolo né sottraendolo. «Non sembra proprio volersi comportare come tutti gli altri numeri!», avranno pensato i matematici greci. La visione aristotelica interagì poi con quella giudaico-cristiana, sviluppatasi successivamente all’interno dell’Impero romano, impedendo di fatto l’investigazione delle proprietà di questo oggetto.

Diversamente dall’Occidente, l’Oriente accolse lo zero quando Alessandro Magno marciò nel 326 a.C. da Babilonia fino in India, portando con sé il simbolo “0” dei papiri astronomici greci. L’egemonia di Roma, che si affermò a partire dal II secolo a.C., non originò un’interazione culturale altrettanto notevole con l’India, sicché quest’ultima non fu esposta all’influenza aristotelica. La più antica notazione numerica indiana era quella brahmanica, comparsa verso il 350 a.C., che assunse nel VI secolo d.C. la forma di un sistema posizionale derivato dai babilonesi, ma a base 10. Gli indiani non attribuivano alla geometria la centralità che le conferivano i greci nel quadro delle scienze matematiche e indagarono i numeri considerandoli come elementi di espressioni algebriche. Per esempio Brahmagupta, intorno al 630, cominciava già a parlare di incognite. Gli indiani non avevano quindi problemi con i numeri negativi, che risultavano come sottrazione di un numero per un altro più grande: in mezzo alla ciotola dei numeri, tra i positivi e i negativi, ponevano lo zero. Cominciarono a considerarlo un numero come tutti gli altri e, studiando il suo comportamento, si imbatterono nei problemi che spaventavano l’Occidente. Per quanto riguarda la somma e la sottrazione, i matematici indiani non trovarono nessun impedimento. Tra questi possiamo citare di nuovo Brahmagupta che nel Brahmasphuta Siddhānta del 628 d.C. è il primo a trattare lo zero come un numero a tutti gli effetti. Lo seguirono Mahavira, attivo intorno al 850, e cinque secoli dopo, intorno al 1150, Bhāskara II, nel suo Siddhānta Śiromani[1], in particolare nei trattati aritmetico Līlāvatī[2] e algebrico Bijaganita. Quest’ultimo poté riassumere con apprezzabile economia quanto affermato dai suoi predecessori:

Nell’addizione dello zero, o nella sua sottrazione, la quantità, positiva o negativa, resta la stessa. Ma sottratta a zero, è invertita.

Tutto questo sembra tornare. Anche per quanto riguarda la moltiplicazione, Mahavira scrisse semplicemente:

Un numero moltiplicato per zero è zero.

Il che è proprio quanto affermiamo noi oggi. Rispetto alla divisione, invece, i matematici indiani sembrano avere qualche difficoltà. Brahmagupta scrisse:

Positivo o negativo, diviso per zero, dà una frazione con zero a denominatore. Zero diviso un negativo o un affermativo o è zero, o è espresso da una frazione con zero a numeratore e la quantità finita a denominatore […] zero diviso zero è niente.

Che 0/a, con a sia positivo che negativo, sia ancora zero, siamo d’accordo. Invece affermare che a diviso zero è a/0 ed  equivale essenzialmente a un cambio di notazione o di linguaggio, senza dire nulla sul risultato. Infine egli  afferma con sicurezza che 0 diviso 0 faccia 0. Mahavira è di un altro parere: «Un numero non cambia quando è diviso per zero». Invece Bhaskara riguardo al risultato di a/0 introduce un’idea interessante:

Questa frazione è chiamata quantità infinita. In questa quantità, consistente in ciò che ha zero per divisore, non c’è alterazione, indipendentemente da quanto le si toglie o aggiunge.

Se erano d’accordo rispetto a somma, sottrazione e moltiplicazione, sulla divisione per zero sembra che tutti abbiano un’opinione differente. Ma la matematica non è un’opinione! Allora ci deve essere sotto qualcosa di sottile e fondamentale.

Probabilmente avrete imparato a scuola che la divisione per zero è impossibile. Spero davvero che sia così, e lo dice uno al quale è stato insegnato dalla maestra delle elementari che dividere per zero darebbe come risultato zero. Ma ovviamente non è importante quello che si dice, ma come si ragiona prima di affermarlo, e vorrei mostrare quali sono le motivazioni per cui non è possibile dividere per zero. Tanto per cominciare, un po’ come per la somma, sottrazione e moltiplicazione, vogliamo disporre di una definizione di divisione che sia abbastanza concisa, ma anche piuttosto generale. Pensiamo anche alle definizioni per ricorrenza incontrate nell’ultimo numero, brevi ma estremamente efficaci. Ebbene, per tutti gli altri numeri, il risultato di una divisione è inteso come il numero che, moltiplicato per il divisore, diventa il dividendo. Invece, eravamo d’accordo che nessun numero moltiplicato per zero diventa un numero diverso da zero, quindi questa definizione non si può applicare alla divisione per zero. Ora qualcuno potrebbe suggerire di decidere a tavolino che un certo numero diviso per zero dia come risultato q, qualunque numero esso sia, e poi inseguire una definizione che consideri anche questo caso. Ma questa proposta non sembra proprio conciliabile con la struttura algebrica connessa alle altre operazioni. Essa porterebbe a degli assurdi matematici per cui è possibile dimostrare che un numero è uguale a un altro numero qualsiasi. Infatti, sappiamo che 1×0 = 2×0,  perché abbiamo 0 da entrambi i lati, e se fosse possibile dividere da entrambe le parti per zero si otterrebbe 1 = 2,  e così per qualsiasi altro numero. Infine, seguendo Bhāskara, non si potrebbe semplicemente affermare che qualsiasi numero diviso per zero dà come risultato infinito? Possiamo anche dire che a/0 dà come risultato il colore blu, per quanto utile possa sembrare, ma purtroppo nulla di tutto ciò risolverebbe la questione. Anche questa definizione porta a un assurdo: avremmo 1/0 = 2/0, perché abbiamo infinito (o il colore blu) da entrambi i lati, e moltiplicando a destra e sinistra per zero si otterrebbe di nuovo l’assurdo 1 = 2. Il punto è questo: infinito, come il colore blu (ma questo appare chiaro a tutti), non è un numero reale! Bisogna stare molto attenti a cosa si introduce nella “ciotola dei numeri”, prima di ritrovarsi ospiti indesiderati. Forse è anche per questo motivo che noi occidentali abbiamo aspettato così tanto prima di accettare lo zero come un numero a tutti gli effetti. Esso ci appariva come un verme che si riproduce, generando problemi sempre più intricati. Abbiamo lasciato ad altri il compito di sporcarsi le mani.

I matematici indiani riuscirono però a non farsi intimidire. Il sistema di numerazione indiano, per la sua innovazione, perfezione e semplicità di calcolo, venne adottato universalmente: la Cina lo introdusse nell’VIII secolo; Ben Ezra, che percorse tutta l’Asia e l’Oriente, lo descrive nel suo Libro del numero, introducendolo nella cultura ebraica. Gli arabi entrarono in contatto con la notazione indiana grazie al trattato di al-Khwārizmī, che illustrava la sua convenienza per il calcolo, usava il simbolo circolare e tradusse con l’espressione as-sifr il termine sanscrito śūnya (nulla, vuoto). Infine, lo zero giunse in Europa dalla Spagna: la diffusione del sistema indo-arabo è tradizionalmente attribuita allo studioso francese Gerberto d’Aurillac, mentre Leonardo Fibonacci nel suo Liber abaci, pubblicato nel 1202, scrisse:

Novem figure indorum he sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Cum his itaque novem figuris, et cum hoc signo 0, quod arabice zephirum appellatur, scribitur quilibet numerus, ut inferius demonstratur[3].

La parola zephirum nell’italiano del XIV secolo divenne zefiro, zefro o zevero, e fu infine abbreviata in dialetto veneziano con zero. E da allora conviviamo con questo simbolo, che desidera solo essere un numero, niente di più.

Note

[1] In italiano il titolo significa “La Corona dei Trattati”, infatti è una raccolta di quattro opere per un totale di 1450 versi: Līlāvatī, Bijaganita, Grahaganita e Golādhyāya.

[2] Il nome dell’opera significa letteralmente “La giocosa”. Stando alla redazione di Faizi, il poeta che la tradusse in persiano nel 1587, tale titolo sarebbe il nome della figlia di Bhāskara II, una ragazza dotata di straordinaria intelligenza.

[3] «Le nove cifre degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove cifre, e con questo simbolo: 0, che in arabo si chiama zephir, si può scrivere qualsiasi numero, come si vedrà più avanti.»

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