L’ultimo scalino

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di Vanna Scolari Ghiringhelli

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Attraverso le descrizioni dei Veda, l’ascesa della figura del capo nell’India antica, dai capi tribù Arii ai grandi rajā.

È disegnato qui lo stadio in cui l’ascendere giunge alla meta. Si diventa famosi al cospetto degli uomini e degli dei e si è accolti nella cerchia degli uomini che racchiude in sé l’intera vita della nazione, e si ottiene così un significato durevole e sempiterno.

Ma è meglio non arrivare all’ultimo scalino perché lì seduta c’è la Morte, Mṛtyu, M R T, la stessa radice, anche per gli Arii.

Le tribù nomadi degli Arii non avevano un re, solo dei capi o dei capi tribù quando invasero il nord-ovest dell’India, ma con l’andar del tempo, ormai stabili, i re diventarono necessari per reggere i vari regni che si erano formati, uomini in grado di governare con forza in quei tempi di guerre continue.

Dev’essere stata dura, diremmo oggi nel nostro linguaggio quotidiano, per un capo tribù o per chiunque altro trasformarsi in un sovrano di un piccolo o grande regno: un re doveva essere come Indra, dio della guerra e re degli dei, invincibile conquistatore, Śatakratu, signore dei cento poteri, bello d’aspetto, sano, coraggioso, di carattere forte, capace in guerra, abile con l’arco e in grado di combattere fieramente sulla biga.

E doveva essere ricco, possedere gioielli, insegne, vesti e l’elefante reale, un elefante che avesse una pelle molto chiara da poterlo paragonare ad Airavata, il grande elefante bianco a quattro zanne di Indra. Il sovrano ideale era il difensore del popolo, colui che preserva il potere magico delle forze divine che controllano l’universo e il grado della sua statura morale doveva essere ineguagliabile perché il mantenimento dell’ordine morale dipendeva proprio dalla sua integrità.

Doveva, doveva…..ed egli pensava, pensava come ascendere quella scala così ardua e vincolante. Ne valeva sicuramente la pena diventare re, in cima alla scala c’era il trono, si diventava famosi al cospetto degli uomini e degli dei.

Gli sembravano gradini insormontabili, ma in realtà per l’uomo c’è solo un gradino insormontabile, la morte, l’ultimo, tutti gli altri sono salibili, a costo di attaccarsi a una corda.

Trovò la corda per quell’ascesa rischiosa o forse gli fu imposta, ma il fatto è che si manifestò al momento giusto: il purohita, brahmano, sacerdote, cappellano del re.

E a poco a poco si stabilì che un re non poteva governare se non aveva il cappellano a fianco, i suoi sforzi per un buon governo sarebbero falliti e le offerte sacrificali inutili, quelle del sacerdote del re potevano invece aumentare la sua gloria e il suo potere, nella regione di costui, o dei, ci sia la luce, il sole, il fuoco e anche l’oro. Inferiori a lui siano i suoi rivali. Fallo salire nella più alta sfera dello spazio (Atharvaveda I,9).

Il purohita aveva un bagaglio inestimabile: cultura, organizzazione, grandi doti di consigliere e, al disopra di tutto, era un maestro dell’Atharvaveda, il quarto Veda.

Il Veda delle formule magiche, degli incantesimi, degli amuleti, le maledizioni, le fatture, dei mantra più segreti e della medicina. Le formule che potevano non solo proteggere il re dai suoi nemici e rivali, ma riversare su di essi la magia ostile.

Il suo compito era evitare che l’ascesa reale si arrestasse e si trasformasse nella caduta in un Pozzo, egli rappresentava il vero potere del re.

Celebrava il rajāsūya, un rito di consacrazione del sovrano che, fra l’altro, gli ricordava che anche se egli fosse diventato il re più potente e la sua ascesa inarrestabile, Mṛtyu il dio della morte era sempre presente e doveva essere propiziato, era necessario posticipare al massimo il famoso ultimo scalino, mantenere la regalità con preghiere, incantesimi e consegnare al re l’amuleto di legno di Palāśa Butea monosperma – come quello che un tempo apparteneva agli dèi, per assicurargli la lealtà dei vassalli e dei sudditi, il legno sale crescendo in terra.

Quanti sacrifici, oblazioni, preghiere, incantesimi e amuleti per tirare avanti, diremmo ancora noi nel XXI secolo, con l’amuleto vittorioso, con il quale Indra si accrebbe, con questo, o Brahmaṇaspati, accrescici per la nostra regalità: l’amuleto fatto di schegge del legno di dieci alberi sacri per tenere il re lontano dalle malattie, l’amuleto d’avorio per dargli la longevità e la potenza dell’elefante, l’amuleto per il potere e la gloria fatto di peli dell’ombelico di un aspirante al sacerdozio che avesse concluso il suo discepolato, di peli di leone, tigre, capra, ariete e di re, impastati con gommalacca e ricoperti d’oro e, nel caso di perdita del trono, non bisogna mai mollare, l’invocazione a Brahmaṇaspati, il Signore della Preghiera affinché concedesse al re l’amuleto a forma di ruota, cakra, come quello di Indra, per riprendere la sua ascesa e diventare Cakravartin, Sovrano Universale, toro di Indra, toro del cielo, toro della terra è costui. Toro di ogni essere, sii tu l’unico toro (Atharvaveda VI,86). Siamo al penultimo gradino: essere riconosciuto imperatore – re dei re – con il lungo e misterioso sacrificio del cavallo, l’Aśvamedha…e poi basta.

Tira di qua, tira di là, non si capisce che cosa avrebbe fatto il nostro re senza il purohita. Forse non lo si può sistemare nelle regole del “sei al quinto posto”, si ascende per gradi – non voler saltare alcun gradino. Il purohita sapeva che senza di lui il re non ce l’avrebbe fatta, chi si spinge ciecamente in su, quegli è interiormente abbacinato, sarebbe caduto nel Pozzo o avrebbe cercato di saltare molti gradini per arrivare in alto in ogni modo, al più presto e avrebbe raggiunto l’ultimo, così, senza accorgersi che lì seduta M R T l’aspettava.

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Autore

  • Membro dell'Accademia Ambrosiana, Classis Asiatica (area indiana). Già vice-presidente del Centro di Cultura-Italia di Milano e attualmente socia onoraria, ha rivestito dal 1977 al 2001 l’incarico di docente di lingua hindi presso l'Is.I.A.O (Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente). Dal 2001 al 2009 è stata inoltre docente di lingua hindi presso l'Università degli Studi di Milano (Corso di laurea in Mediazione linguistica e culturale). Dal 1968 è collezionista, studiosa ed esperta di armi bianche orientali, in particolare del kris indonesiano e malese (definito dall’UNESCO patrimonio dell’umanità per i suoi alti valori artistici, simbolici e tradizionali). Su questo tema ha pubblicato vari articoli e tre volumi specialistici. Si è altresì occupata delle maschere del teatro di Bali e dell’influenza del simbolismo indiano in Indonesia. Tiene conferenze presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, il Museo d’Arte e Scienza di Milano, il Ce.L.S.O (Centro Ligure Studi Orientali) di Genova, il Museo Civico di Castelvecchio (Verona) e il PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) di Milano.