Welcome to the machine

di Amedeo Liberti

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5. Welcome to the machine

L’avvento del mondo delle macchine, come in un famoso brano dei Pink Floyd . Un’altra grande potenza che va saputa gestire, poiché è prima forma sociale che meccanica, ed estende il concetto stesso  di “dispositivo”. Come si presenta tutto ciò nella fantascienza cinematografica?

La fantascienza ha capacità visionarie in grado di tradurci sul ciglio del presente, di farci sporgere un po’ più in là e ammirare il panorama a venire. Tuttavia se i generi letterari fossero personaggi mitici la fantascienza sarebbe Cassandra. È che spesso quel che mostra piace assai poco, soprattutto se a narrare sono scrittori caustici come George Orwell o Aldous Huxley.

Eppure al cinema la fantascienza non ha mai avuto tanto successo come negli ultimi trent’anni. Che ci sia un che di rassicurante nelle immagini che baluginano nella lama di luce d’un proiettore, rispetto ai contrasti nero su bianco della letteratura? Ben strana serenità. Si pensi a Matrix. Denso di suggestioni filosofiche cartesiane (mundus est fabula) e di citazioni letterarie da Lewis Carrol (follow the white rabbit) il film segue la scia di spettacoli come R.U.R di Čapek e pellicole come Bladerunner di Ridley Scott, opere che sono moniti sui rischi della ubrys tecnologica. La storia narra di macchine dalla potenza così grande da imprigionare le menti umane in una rete cibernetica. Oltre lo specchio però, per noi e il protagonista, la verità si rivela crudele. Insomma,  non c’è da star allegri.

Stephen Hawking ultimamente ha ammonito dal realizzare una qualche forma di A.I. (Artificial Intelligence) per non incappare nell’estinzione per sua mano (della A.I. s’intende). L’uscita dà l’impressione che gli scienziati giungano in cima al monte solo per scoprire che la fantasia di scrittori visionari sia seduta lì, ad aspettare, da un pezzo; ma non si creda che gli autori di fantascienza abbiano la sfera di cristallo. La fantascienza tratta solo in apparenza del futuro, in realtà ci guida sul margine del presente e da lì si limita ad immaginare conseguenze (portate agli estremi) di tendenze attuali. È tardi, insomma, per aver paura del gran potere delle macchine. Dispositivi tirannici già esistono e hanno in sé abbastanza intelligenza da domare molte espressioni umane. Questo non da ieri, bensì da qualche secolo.

I dispositivi in fondo son sempre stati tra noi e non soltanto nella forma di macchine apparecchiate di molteplici parti. La maggioranza ha tutt’altro aspetto. Cos’è infatti un dispositivo? Una risposta la può dare il filosofo Giorgio Agamben quando nota che il termine dispositivo viene dal latino dispositio e traduce il greco oikonomìa, cioè economia (gestione della casa). Per Agamben sono dispositivi anche gli atti giuridici, le organizzazioni economiche e le istituzioni sociali. Forse, in Matrix, i Wachowsky si sono spinti solo un po’ più in là suggerendo che i dispositivi siano forme di vita come noi (e chissà se Hölldobler e Wilson sanno quanto hanno in comune super-organismi e borg ).

Che poi i dispositivi c’appaiano despoti non dovrebbe sorprendere. Deleuze, sulla scia di Foucault, sosteneva non solo che la forma delle macchine sia sociale più che tecnica, ma che queste sono composte da enunciati di potere. Ma che vuol dire avere potere? Attualmente significa usare le potenze dell’economia a proprio vantaggio e una delle (grandi) potenze consiste nel controllo dei dispositivi; chi li governa, governa il pianeta. Se nella nostra epoca vi è una così alta densità d’apparecchi è perché, dunque, la passione dei dispositivi è consustanziale all’attuale civiltà economica. Purtroppo, al momento, non sembra vi siano rivoluzioni anticapitaliste all’orizzonte ed è un peccato, visto che per via dell’automazione, nel breve futuro, s’assisterà ad una moria di posti di lavoro mai immaginata se non in Piano Meccanico.

L’era del dominio delle macchine è, dunque, più che prossima. Speriamo che i protagonisti di tale rinnovamento abbiano letto l’esagramma della Potenza del Grande. Saprebbero che esso vaticina il successo se la potenza è volta verso il bene ma che, viceversa, si può rovesciare in segno di catastrofe. Almeno auguriamoci che abbiano letto Stan Lee (da un grande potere derivano grandi responsabilità). Io non escluderei che si realizzi una congiuntura ambigua. Come nel racconto di Fritz Leiber, quando muoiono gli ultimi dei, vera e propria parabola nietzscheana. Le macchine intelligenti dominano il pianeta mentre i loro amorevoli creatori sono ridotti ad una coppia. Le due specie si congedano con un tocco michelangiolesco.


Bibliografia

  • http://www.bbc.com/news/technology-30290540
  • Il termine è introdotto nel medioevo per scopi teologici. Serviva a distinguere il piano della Creazione da quello della sua “gestione” ad opera della Provvidenza. L’intento era dimostrare che una cosa possa essere tripartita senza che l’unità venga meno (dogma della trinità). Cfr.: G. Agamben, Che cos’è un dispositivo? I sassi nottetempo, Roma 2006.
  • Cfr.: Gilles Deleuze, «che cos’è un dispositivo?», all’interno di: Divenire Molteplice, Ombre Corte edizioni, Verona 1999, pag 67 e ss.
  • Kurt Vonnegut, Piano Meccanico, SE, Milano1992.

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.