Non abbiamo bisogno di martiri

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di Gianluca De Rosa

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L’imperatore cinese Omo, alle soglie del suo assassinio (23 d.C.), rimase impassibile con lo scettro di Giada in mano a contemplare le stelle, mormorando: «Se è la volontà del Cielo, morirò; altrimenti nulla potrà uccidermi».

La mattina del 29 gennaio del 1979 Emilio Alessandrini aveva appena accompagnato i figli a scuola e stava andando in Tribunale. Era un Pubblico Ministero all’apice delle gratificazioni professionali: per un breve periodo aveva sostenuto l’accusa nel processo della strage di Piazza Fontana, mentre in quei mesi stava coordinando indagini di primissimo rilievo, tra cui quelle sul Banco Ambrosiano (il crack bancario più grande nella storia d’Italia) e quelle su vari nuclei armati terroristici – Brigate Rosse, Prima Linea, Formazioni Comuniste Combattenti –, nonché i rapporti tra questi ed i nostri servizi segreti.

Proprio queste ultime indagini gli costarono la vita: all’incrocio tra Viale Umbria e Via Muratori venne raggiunto da otto colpi di arma da fuoco. A sparare era un gruppo di terroristi di Prima Linea.

Il fatto più sconcertante è che pochi mesi prima, nel settembre del 1978, vennero trovate delle sue fotografie in un punto di ritrovo della stessa fazione che l’avrebbe ucciso (il celebre “covo di via Negroli” facente capo a Corrado Alunni); senza lasciarsi intimorire da quell’avvertimento, il magistrato continuò ad indagare.

Pochi mesi dopo l’assassinio di Alessandrini, altri spari. La sera dell’11 luglio 1979 Giorgio Ambrosoli tornava a casa, dopo una serata trascorsa da amici. Era un avvocato specializzato in liquidazioni coatte amministrative: per alcuni fallimenti, la legge prevede che sia una persona terza ed imparziale a gestire ciò che rimane del patrimonio delle società e l’amministrazione delle imprese nei loro ultimi mesi di attività; Ambrosoli si stava occupando proprio di questo. Gli era stato affidato un incarico scomodissimo: era commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, personaggio che era riuscito a tessere una tela intricatissima di rapporti tra Cosa Nostra, l’alta finanza milanese, la loggia massonica P2 e molti pubblici ufficiali.

Aveva appena finito le sue indagini: aveva già segnalato tutte le irregolarità che aveva riscontrato a tutte le autorità che gli avevano chiesto informazioni – anche agli americani, visto che i contatti di Sindona si estendevano addirittura alla criminalità organizzata statunitense; avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale il giorno successivo, 12 luglio 1979. Nei mesi precedenti aveva ricevuto molti tentativi di corruzione, divenuti con l’andare del tempo minacce di morte. L’avvocato non si lasciò intimidire e continuò a svolgere il suo dovere.

Lo uccisero quattro colpi di pistola, esplosi proprio sotto casa sua. Nessuna figura pubblica andò ai suoi funerali, tanto palesi erano il disinteresse e l’avversione per il suo lavoro. Solo una medaglia d’oro con vent’anni di ritardo, e qualcuno disse che “se l’andava cercando” [1].

Nove mesi dopo, un’altra vittima. Guido Galli era un giudice istruttore che quando non indossava la toga insegnava criminologia all’università di Milano. Aveva concluso da poco la prima maxi-inchiesta sul terrorismo, partita nel settembre 1978 dall’arresto di Corrado Alunni e dal ritrovamento del covo di Via Negroli a Milano di cui parlavamo poche righe fa, proprio dove erano state rinvenute le fotografie di Alessandrini.

Era la festa del papà del 1980; lui aveva fatto le cose in grande e di figli ne aveva cinque. Era tornato a casa all’ora di pranzo per passare del tempo con la famiglia e nel pomeriggio aveva tenuto una lezione nell’aula 309, dove trent’anni dopo ho sbadigliato spesso per via di professori molto più opachi di lui e dove ora sta affissa una targa che reca il suo nome. Appena finita la lezione, nel corridoio fuori dall’aula, tre terroristi di Prima Linea spararono tre colpi di pistola, colpendolo alla nuca; lanciarono dei fumogeni per coprire l’attentato e guadagnarsi la fuga.

Guido Galli conosceva benissimo i rischi cui andava incontro. Milano piangeva ancora Alessandrini; a Roma le Brigate Rosse avevano ucciso due anni prima un suo amico e collega, Girolamo Tartaglione. Nei tre giorni precedenti l’assassino di Galli, il 16 e il 18 marzo dell’80, cadevano per la stessa mano un altro magistrato romano, Girolamo Minervini ed il Procuratore salernitano Nicola Giacumbi. La paura e le morti dei colleghi non lo avevano fermato [2].

Tribunale di Milano, giovedì nove aprile 2015, ore 11.15. Ero nella mia stanza al pianterreno e stavo lavorando, il giorno successivo erano fissate circa settemilaottocentoundici udienze – o almeno, tante sembravano –; io e la mia giudice affidataria annaspavamo, cercando di metterci in pari. Nel leggere la solita montagna di carta venivamo interrotti da un’altra giudice che lavora nel nostro stesso piano: spalancava la porta ed urlava “qualcuno sta sparando, ci sono degli spari, forse è morto un giudice, chiudetevi dentro“.

Rimanevamo barricati fino all’una. Nonostante la paura, cercavamo la lucidità di comunicare ai nostri cari che stavamo bene e cercavamo notizie. Emergevano alcune mezze verità ed alcune informazioni certe: lentamente si scopriva che sì, era morto un giudice, ma anche un avvocato, ma anche un testimone, ma anche un’altra persona; che c’erano due, tre feriti, che l’assassino era ancora in Tribunale, forse al terzo piano, forse al secondo, che il Palazzo di Giustizia doveva essere evacuato, che no, se ne era andato in moto, che forse lo avevano arrestato.

Tre i morti (un giudice fallimentare, Fernando Ciampi, e un avvocato, in quella sede testimone, Lorenzo Claris Appiani, assieme a un imprenditore, imputato in quel processo, Giorgio Erba)[3].

I fatti recenti, per quanto molto diversi per via del clima, hanno ricordato a tutti come questi mestieri non abbiano smesso di destare l’odio e il disprezzo di chi non vuole essere giudicato.

Spesso nel raccontare di queste figure famose tra i giuristi si torna sulle dinamiche degli omicidi, come ho fatto nella prima parte di questo scarabocchio; ma non sono queste ad importare. Importa invece la fatica quotidiana di chi ancora vive e fa gli stessi mestieri con diligenza e abnegazione.

I miei studi (insufficienti) e la mia (scarsissima) pratica mi hanno dato l’impressione che la gran parte dei procedimenti penali si divida in due categorie: quelli scomodi e quelli inutili. Entrambi i generi richiedono impegno, studio e capacità; i secondi portano a grandi frustrazioni, i primi a pericoli ancora attuali. In più, le persone che hanno deciso di praticare un mestiere come il magistrato o l’avvocato sono massacrate da ritmi e scadenze ossessivi, esposte a responsabilità gigantesche – morali, giuridiche, talvolta patrimoniali –; è facilissimo sbagliare e pagare a caro prezzo questi errori. Poi ogni categoria professionale ha i suoi problemi interni – i magistrati sono da anni sotto costante attacco politico e mediatico, oramai diventato bipartisan, a inutile riprova di quanto talvolta sia scomodo amministrare la giustizia; gli avvocati, da liberi professionisti, vivono vite precarie e sono molti di più.

Una mia collega un giorno parlava con il suo giudice affidatario, chiedendogli se sapesse perché avessero tolto la gigantografia di Falcone e Borsellino che campeggiava sulla facciata principale del Tribunale: a detta di molti doveva rimanere lì per sempre. Lui le rispondeva: «Non abbiamo bisogno di martiri». Quando mi veniva riferita questa frase, pensavo fossero parole piuttosto supponenti, invece ora credo di aver capito: la vita di molti giuristi è un martirio quotidiano. L’eroismo non sta nella morte violenta; sta nell’attività svolta ogni giorno da tutti coloro che portano avanti mestieri che stanno scomodi a qualcuno, senza compromessi – certamente resa ancora più preziosa quando si hanno le avvisaglie ed i presagi del proprio tragico destino o quando si è vittime di minacce, ma questo non significa che sia sempre più semplice non cedere alle pressioni, rispettare le leggi; e soprattutto non avere paura di sbagliare e di pagare le conseguenze delle proprie azioni.


Note:

Per approfondire consiglio G. Simoni – G.Turone, Il caffè di Sindona, Milano, Garzanti, 2009; C. Staiano, Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino, Einaudi, 1995, da cui è stato tratto il film Un eroe borghese (1995) di Michele Placido.

[2] Si può trovare un intervento prezioso e commovente di Armando Spataro in memoria di Guido Galli a questo link.

[3] Non mi dilungo nella ricostruzione dei fatti: una ricerca su Google trova fin troppi risultati a riguardo.

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.