Il morso del Saguaro

di Amedeo Liberti

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Nel fumetto della Sergio Bonelli Editore emerge la figura di uno degli “Shadow Wolves”, un agente federale nativo americano, che deve saper mordere per portare a termine il difficile compito di fermezza e giustizia per tenere sotto controllo il territorio fra l’Arizona e il Messico.

Un uomo che è passato nell’inferno verde del Nam, un’indole ribelle come gli anni Settanta in cui vive e un carattere spigoloso, anzi spinoso come il cactus del deserto, tanto da meritarsi il soprannome di Saguaro; questi è Thorn Kitcheyan [1].
Brutto carattere, modi spicci, scarso di parlantina (da non credersi un eroe dei fumetti che pensa prima di aprire bocca) fisico imponente e, da vero Navajo, attitudini guerriere. Un uomo determinato, capace di mordere finché non si spezza l’osso. Un antieroe, di quelli a cui la Bonelli e la scuola italiana di fumetto d’una volta ci avevano abituato e che da troppo tempo ci negavano.
Nonostante l’ambientazione western si è lontani anni luce da Tex. Non solo perché il protagonista vive nel XX secolo. È che qui il personaggio principale non è un uomo bianco che apprezza, paternalisticamente, la cultura del “buon selvaggio” pellerossa. Anzi, a ben vedere, certe tradizioni è l’eroe pellerossa a rinnegarle per primo.
Thorn Kitcheyan è un paria, un uomo senza più identità. È un migrante che ha fatto terra bruciata attorno alle sue radici, ma che non si è inebriato dell’entusiasmo del nuovo mondo attorno a lui. Anche perché questo nuovo mondo non l’ha affatto accolto. Tanto che ha dovuto tornarsene a casa, dove però non c’erano ad aspettarlo tappeti rossi. Eppure è stato congedato dai marines perché gravemente ferito in Vietnam. Un uomo così si meriterebbe tanta riconoscenza e rispetto oltre che medaglie.
Invece va ad abitare in una catapecchia del deserto. Oltretutto il terreno che ha comprato, per quanto spoglio e inutile, fa gola al potente criminale di turno, con cui Saguaro si scontrerà (avendo la meglio). La cosa gli varrà l’assunzione in una agenzia speciale del FBI, l’unità dei Falchi Lupo.
Un classico si dirà. Il solito elemento ribelle e/o marginale, la cui eccentricità viene istituzionalizzata ed adoperata per utilità sociali maggiori, alti scopi morali e bla bla bla. E invece no. Perché in Saguaro niente è come sembra apparirci all’inizio. L’unità dei Falchi Lupo, ad esempio: si tratta di una nuova agenzia operante all’interno della riserva indiana, un’agenzia che dovrebbe essere in grado di investigare nei luoghi e nei modi in cui ai bianchi sarebbe impossibile? Oppure è solo la foglia di fico con cui l’amministrazione locale può ipocritamente velare le condizioni disastrose in cui vive la comunità Navajo? Pian piano, procedendo nella serie, scopriremo non solo che i buoni magari non lo sono tanto o che i cattivi indiani esistono e che compiono azioni tra il terrorismo e la guerriglia (anche se forse combattono per una giusta causa). Persino lo stesso Saguaro ha degli scottanti segreti (che ha rimosso e non riesce a ricordare).
Il fascino della serie non risiede però tanto nel personaggio di Saguaro. Si può dire che egli non sia il protagonista della serie a fumetti che porta il suo nome. Certo non è lì solo per offrire l’occasione di tratteggiare i numerosi personaggi collaterali che ne affollano le pagine. È che il vero protagonista del fumetto è il rapporto tra due culture, quella da cui proviene Saguaro, la cultura localmente maggioritaria degli sconfitti pellerossa e la cultura globalizzante dello “Zio Sam”.
A leggere Saguaro sembra d’essere dalle parti di New Hollywood, ai tempi in cui riscrisse il modo di rappresentare gli indiani sul grande schermo; solo che Saguaro fa un po’ più che permettere di grattare via ipocriti pruriti storici. Ci offre avventura, azione e in più una riflessione sulla giustizia. Non quella astratta e generica, bensì quella quotidiana, quella pratica sociale che si declina nello scegliere le parti di qualcuno. Ecco allora storie parlano di sfruttamento della manodopera, di razzismo, di eugenetica [2], di ecologia, dello stato di abbandono dei reduci di guerra, dei traffici loschi di papavero da oppio (le guerre in Indocina costano) dei soprusi delle multinazionali.
Con Saguaro capiamo anche che per scegliere bisogna prima capire chi si è. S’è detto che Saguaro è determinato; non solo nel senso usuale del termine, ma anche nel senso lato di ciò che è definito. E a definire Saguaro sono proprio due delle caratteristiche del segno del Morso Che Spezza: fermezza e giustizia.

 


Note:

  1. Saguaro, nr. 1-35, Sergio Bonelli Editore 2012-15.
  2. Gli U.S.A hanno praticato fino a tutto il ‘900 politiche eugenetiche verso i pellerossa. Per saperne di più vedi: http://www.lindro.it/0-societa/2014-10-03/144686-la-strage-della-sterilizzazione-forzata.

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.