Morsi d’amore

di Ivan Ferrari

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Morsi e graffi sono simboli della tenzone amorosa nella poesia indiana. Ma quando si rischia una pena violenta per un amore illecito occorre, come immagina il poeta Bilhana, usare la poesia per ritardare la sentenza del re (raja) e chiedere all’attesa di accattivarne la grazia.

L’amore è una colpa? Di certo è un sentimento anarchico, spregiudicato e talvolta distruttivo. Può essere una colpa contro se stessi, perché espone la propria felicità alla volontà di un’altra persona. Può essere una colpa contro il suo destinatario, perché gli accolla una responsabilità che spesso non ha cercato in nessun modo. L’amore rende prepotente l’immaginazione e la pervade con l’allucinogena persuasione di poterne imporre i sogni sulla realtà. Forse non tutte le colpe meritano una sanzione e forse non tutte le sanzioni sono spiacevoli a subirsi. Esiste una notevole analogia tra i simboli che l’I King utilizza per descrivere le dinamiche di un processo e quelli usati dai poeti per descrivere un innamoramento, anche se i fulmini della passione illuminano fino a distorcere le forme nell’irreale e le vampe della brama sono tutto fuorché leggere. Nel processo amoroso chi è innamorato si sottopone al giudizio di un potenziale partner e quest’ultimo decide se comminare al reo confesso la pena del rifiuto o se condividerne la reità. Accade però che l’amore, una volta condiviso, ponga gli amanti nella spiacevole situazione di vedersi coimputati dinnanzi a un vero tribunale. Il consorzio umano non può esimersi dall’imporre una forma di regolamentazione sui sentimenti che ne animano i membri, ma spesso ha passato la misura nel farlo. Il controllo sociale sui desideri dovrebbe colpire unicamente quelle perversioni che non fanno parte nemmeno dei lati più oscuri dell’amore e che con ogni evidenza fanno del proprio oggetto una vittima. Si danno casi di rapporti autenticamente amorosi che sono osteggiati soltanto perché si contrappongono al pregiudizio o al tradizionalismo. La letteratura occidentale offre casi come quello di Romeo e Giulietta o quello di Lancillotto e Ginevra. Si tratta di amori impediti da appartenenze contrapposte a parti in conflitto, a ceti differenti o a doveri verso terzi.

Parlando di morsi, di amore e di condanne, incontriamo il poeta indiano Bilhaṇa (XI-XII sec.). Nativo del Kashmir, si trasferì presso la corte di Vikramāditya VI, dinasta Cālukya e signore del Deccan, per il quale scrisse la raccolta Caurīsuratapañcāśikā, cioè Le Cinquanta Strofe dell’Amor Furtivo. L’opera è presumibilmente derivata da un repertorio tradizionale di matrice teatrale e l’attribuzione a Bilhaṇa, seppur quasi certa, ha aspetti discutibili, perché il testo è giunto a noi anonimo e in diverse recensioni caratterizzate da peculiari aspetti stilistici e tematici. Narra la storia d’amore clandestina vissuta da un maestro di letteratura con la figlia del suo sovrano che egli era deputato a istruire. Da quest’ultimo il protagonista è però scoperto e condannato a morte. Folgorato da un’idea simile a quella di Shahrazād ne Le Mille e Una Notte, il maestro chiede la parola un istante prima di essere giustiziato e improvvisa una narrazione così avvincente da posticipare e addirittura evitare la condanna. La sua storia d’amore è esposta in cinquanta tra le strofe più celebri della letteratura indiana. Come Orfeo aveva saputo usare il proprio canto per mutare il giudizio del mondo divino sulla morte dell’amata driade Euridice, così Bilhaṇa riesce a mutare la sentenza del re (rāja) con imprevedibile successo. L’ira paterna del giudice è dissipata dalla bellezza artistica che quell’amore proibito partorisce attraverso le parole del suddito fedifrago. Tornata allora la luce nel pensiero del sovrano, egli può comprendere di trovarsi davanti a una legge diversa da quella sociale che è chiamato a far rispettare, una legge più vicina al mistero della vita. Capisce di avere a che fare con quella parte della natura umana che l’uomo non può sacrificare sull’altare della civile convivenza senza morire con essa. Si ritrova così nella stessa posizione di Creonte davanti ad Antigone o di Penteo davanti a Dioniso. Chi è chiamato a far rispettare le leggi della società civile deve sempre fare i conti con quel lato umano che appare talvolta bestiale e talvolta divino, talvolta sociale e talvolta antisociale, ma, in ogni caso, insensibile al diritto positivo. Un lato inestinguibile e ineluttabilmente bipolare. Diversamente da quanto avviene nelle opere sopraccitate, il potere unitivo della poesia impedisce a questo scontro tra diversi piani dell’esistenza di rimanere bloccato nella sua potenziale tragicità, ribaltandolo anzi in un lieto fine degno della più leggera commedia. Il rāja s’inchina davanti alla bellezza dell’amore e del verso che lo celebra. Concede la grazia al suo suddito e a questa accompagna addirittura una concessione fiabesca: la mano della propria figlia. Questo buon giudizio crea la più grande felicità possibile, quella che secondo un altro grande poeta indiano, Amaruka, concede facilmente all’uomo quella stessa immortalità che gli stolti dèi vedici hanno tanto faticato a ottenere.

L’esagramma di sviluppo del Morso che spezza, quello dell’Attesa, ha dunque prevalso. Il morso del giudicante si è estinto nella constatazione della propria contingente inutilità. Tuttavia, ce n’è un altro che i versi testimoniano. Un morso che continuerà a spezzare la carne più molle con una paradossale dolcezza. Un tema assai ricorrente della poesia classica indiana è, infatti, l’aspetto giocosamente aggressivo della tenzone amorosa. La sessualità ha un componente di aggressività simulata che non è sfuggito ai poeti di nessuna parte del mondo. Del resto, è un compito fondamentale dell’artista evidenziare gli aspetti ambigui e stravaganti dell’esistenza. I poeti indiani hanno sviluppato una certa predilezione per la descrizione dei segni che una notte di passione può lasciare sulle membra. L’importanza di questi atti di limitata violenza è qualcosa di affascinante: mordere o graffiare il partner è un modo per marchiarlo, così da sentirlo proprio. Il morso è anche un modo per cibarsi simbolicamente di una presenza amata, così da integrarla nel proprio essere, e rievoca regressivamente quel legame biologico tra neonato e seno materno che è basilare per lo sviluppo dell’emotività nei mammiferi.

L’uso della prima persona è raro nella letteratura del subcontinente, eppure pare che Bilhaṇa non sia mai incappato in una situazione analoga a quella del protagonista. Un’identificazione traluce piuttosto sul piano professionale. Infatti, tutti gli uomini sono esposti alle trame del desiderio, ma gli uomini di genio devono rispondere alle domande che il desiderio pone, devono inventare una verità che simuli qualcosa come un senso della vita. Il senso che Bilhaṇa, Amaruka e gli altri grandi della poesia indiana propongono è che nell’amore in se stesso, pur essendo sovente causa di sofferenza e rovina, risiede la salvezza. Perlomeno nel momento in cui l’arte strappa l’emozione al contingente e la rielabora in un’astrazione della quale ognuno può sentirsi a vario titolo partecipe, essa si configura ultimativamente come uno strumento del destino che permette l’autorealizzazione. L’amore ha un aspetto spiritualmente elevante, perché si sostanzia anche di empatia e obbliga ognuno a uscire da se stesso e vestire i panni di un’altra persona. Esso esorta ad assimilare l’alterità nella ricerca di un’unità sempre più perfetta con un altro elemento della realtà. Questo fa dell’amore mondano un primo passo verso quel congiungimento mistico che i guru ricercavano con il Brahman, l’Assoluto, la deità indefinita delle Upaniṣad. L’identificazione che il poeta sta proponendo al suo lettore non è solamente quella col protagonista, ma anche con ciò che l’amore permette di accogliere in sé. È un invito a fare delle proprie emozioni la chiave per aprire una porta in più nel proprio rapporto col mondo. Ciò detto, l’aspetto mistico che si congiunge alla quasi integrità della letteratura classica del subcontinente non deve farci credere che una cosa abbia valore solo in funzione di una seconda in qualche modo è più elevata. Le parole di Bilhaṇa esaltano la sensualità e la carne, evocandole senza censure. Quei morsi possessivi sono già la salvezza. Forse lo sono in nuce e in un modo che ancora può attingere a una maggiore completezza, ma già vi è in essi tutto ciò che l’uomo deve sapere. Sono una sentenza e una pena poco dolorosa e incredibilmente fausta. I versi che seguono provengono da due recensioni diverse.

I, 48

Oggi ancora, la sua durezza incantevole ricordo

nella battaglia intrecciata dal gioco d’amore,

le mani, senza presa nel sollevarsi e abbassarsi

dei corpi annodati,

spruzzate dal sangue dei segni delle mie unghie

che premono sul suo corpo, dei miei denti

sulle sue labbra.

 

II, 36

Oggi ancora, lei, le ciocche di capelli scosse

e scompigliate,

gli occhi appena balenanti, mobili, riversi,

levata dal sonno stirare all’improvviso le membra

rivedo, toccare più volte il labbro segnato dai morsi.

Poiché la poesia tradizionale indiana, il kāvya, si fonda sulla continua rielaborazione degli stessi motivi e canoni, è usuale ritrovarli in diversi autori. Il tema dei segni chiaramente si concilia bene con quello dell’invidia. Voglio quindi citare almeno un componimento in cui si offre questa connessione. È un componimento di Sonnoka (fune XI sec.) tratto dalla raccolta Il Tesoro delle Gemme dei Bei Detti, realizzata da Vidyākara all’inizio del XII secolo:

“Oggi hai per caso dormito, mia cara, nel giardino di casa

su un letto fatto di fiori di magnolia?

Non vedi i filamenti lacerati e rossi intorno al tuo seno?”

“Ehi, perché mi parli pensando di essere così bravo

nelle insinuazioni, con aria di rimprovero?

Sono stata graffiata a sangue dalle spine mentre coglievo

fiori lì!”

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.