Slow boat to Ching

di John De Martino e Gabriele Pichierri

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Un errore del batterista durante musica d’insieme interrompe l’incanto dell’orchestra. Si capisce così che la melodia originale, l’arrangiamento del maestro e l’assolo del musicista, per amalgamarsi, devono sapere quando cedersi i rispettivi ruoli.

Un ragazzino, disordinatamente vestito, elargisce note con notevole accuratezza. È un assolo di flauto da musicista maturo. Si tratta di un’uggiosa quanto banale giornata milanese. Eppure, nell’alternarsi di momenti di lucidità ad altri di profonda riflessione, forse senza davvero cogliere l’importanza del momento, mi ritrovo a suonare la batteria nella classe di musica d’insieme del maestro Franco Cerri. Mi circondano una partitura sulla sinistra ed una schiera di amici anch’essi impegnati con i loro spartiti e i loro strumenti: sulla sinistra i compagni di sezione, contrabbassista e pianista; sulla destra gli innumerevoli chitarristi e, di fronte, il trombonista, oltre al nostro flautista. I brani che il maestro propone sono classici della tradizione americana di inizio Novecento, i celebri standard, completamenti riarrangiati e riproposti a suo modo: mantenendo intatta la melodia, gli accordi e la struttura vengono rivoluzionati. Spesso anche l’aspetto, le indicazioni e addirittura la convenzionale nomenclatura della partitura vengono resi più originali ed allegri, dal più giovane e vivace ottantanovenne (ve lo ricordate l’ «uomo in ammollo?») che il circuito musicale e artistico italiano abbia da offrire. Sarà un caso che stiamo eseguendo, di Frank Loesser, il brano Slow boat to China. Il richiamo del flautista mi riporta alla realtà, le cose cominciano a farsi interessanti. Egli sta proseguendo nel suo solo, invitante ed evocativo. Per un istante mi scopro a interrogarmi su come un diciottenne sbarbato possa essere capace di ottenere una tale espressività da un flauto traverso, ma non c’è tempo neanche per trovare una risposta. Le regole, durante musica d’insieme, in ambito jazzistico, sono chiare: i solisti sottostanno ad una ben precisa gerarchia che permette loro di susseguirsi ordinatamente, improvvisando sopra gli accordi, mentre questi scorrono inesorabilmente fino ad esaurirsi e poi ripetersi fino all’ultima esposizione, che accompagna la melodia finale. All’interno di questa gerarchia, il batterista è l’ultimo, subito dopo il contrabbasso. Ebbene, il brano stava ormai esaurendo i suoi solisti. Il momento è fausto. La musica procede, Cerri mi si avvicina sorridendo: “Cosa ne dici di fare anche tu un solo su questo brano?”. La domanda non mi coglie impreparato; la realizzazione della richiesta, invece, potrebbe. “Maestro, è un tempo molto lento, non so se convenga”. Prontamente, gli anni di esperienza nel campo fanno la differenza: “Hai ragione. Facciamo così, fallo a tempo doppio!”. Non ho ulteriori possibilità di scampo, accompagno l’espletarsi delle frasi dell’ultimo solista e parto. Nel momento in cui il maestro fa segno al musicista di cimentarsi in un solo, avviene un temporaneo passaggio di testimone per cui l’insegnante, nonché direttore artistico del momento, cede il proprio titolo al coraggioso strumentista affinché questo si faccia condottiero, guidando l’intero ensemble ed emergendo sugli altri. Per un musicista, il solo è un momento di raccoglimento personale, un’intima esposizione di un proprio lato nascosto e custodito, seppur istintivo e fulmineo, anche a lui stesso sconosciuto. Tuttavia, mantenendo costantemente raffinata la scelta di ritmo, note, melodia, un eccellente solista si riconosce soprattutto dalla sua abilità di ascoltare ed amalgamarsi con coloro che lo accompagnano. Non solo: alla fine dell’esecuzione, è suo il compito di ricostituire l’equilibrio nel gruppo tornando ad amalgamarsi tra gli accompagnatori Nel frattempo la mia esposizione è partita, ma le difficoltà iniziano a sovrapporsi. Eccomi di fronte alla struttura da rispettare: la velocità, le frasi, l’imbarazzo e ulteriori sottili complicazioni; il solo si conclude in un disastro, devo fermarmi ed interrompere, a malincuore, quasi dieci minuti di musica. Chiedo scusa. L’errore è grosso, dovuto ad un eccesso di individualismo, una mancanza di coraggio dettata dalla sensazione di non avere mai gli strumenti giusti per offrire un prodotto musicale adeguato alla situazione. In ogni caso, il gruppo non andava fermato per una mia manchevolezza. Poco male, il maestro non è un generale severo, è il momento di ricomporsi e rincominciare, stavolta direttamente dal mio solo. Il testimone di cui parlavo in precedenza, in un quadro del genere, inevitabilmente rimbalza tra un contesto individuale ed uno collettivo, dettato dalle norme che il quieto suonare impone. Lo sguardo del musicista attento è perennemente in movimento; la sua condizione è tanto da comprimario (si potrebbe più tecnicamente dire sideman) quanto più raramente da primario, come transitorio interprete della composizione. Questo continuo passaggio tra il singolo e il collettivo raffigura un’immagine di grande umanità, molto legata alla storia jazzistica americana, cresciuta e sviluppatasi lungo tutto il novecento, contribuendo all’emancipazione della comunità nera da quella bianca: per la storia che possiede, non esiste musica maggiormente in grado di inglobare un puro e convinto senso di comunità all’interno di un così trasgressivo sfogo artistico. Umanità e senso di comunità possiamo ritrovarle nella quotidianità delle più celebri figure del novecento jazzistico; massicci uomini afroamericani alle prese con estenuanti maestranze di giorno e, di notte, uno strumento da far ruggire nelle jam dei fumosi night club. Al mio secondo tentativo il naufragio è rimandato; termino il mio assolo, seppur senza far mancare all’ensemble qualche traballamento. Credetemi, questi momenti di individualità e collettività danzano come su un’instabile piattaforma di legno, è un attimo sprofondare nei mari dell’abbaglio, dell’imprecisione, dello strafalcione espressivo. Frank Loesser, compositore americano della prima metà del Novecento, fu uno di quei personaggi instancabilmente efficienti, forgiati dalle difficoltà della vita, costretti da questa a cavarsela e a inventarsi per poter campare. Con la sua composizione, mi dà l’opportunità di immaginarlo su una malandata imbarcazione d’altri tempi, intento a remare verso terre sconosciute. È infatti comprovato che la musica, più di tutte le arti, si infiltri tra le difficoltà del vivere quotidiano e si costituisca con socialità, convivenza artistica e possibilità di trarre profitto dalla solidarietà tra coraggiosi interpreti. Si tratta di una compagine impegnata per un grande obiettivo, per il quale nel corso di un solo brano, un leader può cedere la propria qualifica, redistribuirla, riacquisirla, buttarla, offrirla in un attimo al primo passante con uno strumento sotto braccio: per una torma di tale spessore, è grande colui che si espone in prima fila, combatte, e si confonde nelle retrovie.

Schermata 03-2457449 alle 21.20.00

Autore

  • Studia batteria jazz alla Civica di Milano. È un musicista nato, anche se per capirlo ha dovuto studiare per un anno filosofia. Ora vive praticamente nel suo box, dove si esercita e invita gli amici musicisti.