La battaglia delle lettere

di Ivan Ferrari

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Nella poesia gaelica i nomi delle cose erano la loro essenza. I druidi usavano la «scrittura arborea» dell’alfabeto irlandese per predisporre eserciti di parole contro un muto avversario, il silenzio, inteso come rinuncia alla conquista del significato di singolarità.

L’unificazione del molteplice in un complesso finalisticamente orientato, è il modo in cui l’I King concepisce l’esercito. La vita stessa è organizzazione e le arti che esprimono la vita fanno leva positivamente o negativamente su questo fatto. I poeti si pongono un obiettivo espressivo, selezionano le parole e le schierano sul campo più aperto che ci sia: il foglio. Come l’imperatore dell’I King, il poeta non può capitanare le sue fila, se non intende scadere nel solipsismo. La pretesa di porre la propria identità a capo di ciò che si scrive ha come sgradevole conseguenza, nel momento in cui il testo è ricevuto da un destinatario, l’indebolimento del carattere mediatore delle parole. Bisogna affidare i propri significati alla poesia in se stessa, cedendo a una o a qualcuna delle parole selezionate il compito di guidare il componimento, facendone il cuore dell’armata, il generale. L’autore si fa d’ombra come quel re illuminato descritto da Zhuāng-zı˘, che estende sul proprio regno un’influenza tanto benefica quanto immanifesta1 . Quella è la parola creatrice, la Rùah divina. Per ogni parola esistono alcuni contesti che ne esaltano gli aspetti grafici, fonetici e significativi. Se li s’indovina, è possibile dilatarla e arricchirla di una nuova forza evocativa e di una fertile tensione psichica. L’armata della poesia conquista il fruitore solo assoldandolo nella sua schiera: uno strano coro di dissonanti cantori in cerca di significati. Secondo il poeta e saggista britannico Robert Graves2 , la poesia europea nacque come il linguaggio magico di culti orientati a una concezione dionisiaca e sciamanica del mondo naturale. Il duecentesco Llyfr Coch Hergest (Libro rosso di Hergest) comprende anche una miscellanea che ben rappresenta una realtà di questo tipo: i Mabinogion, parola di ardua traduzione che probabilmente indica un legame tra questi documenti e il dio celtico Maponos, il Grande Figlio3 . Uno di essi, il Libro di Taliesin, fu scritto probabilmente nel X secolo, ma il bardo eponimo visse e compose tra il 534 e il 599. Comunque, il materiale mitico e simbolico che la permea ha origini molto più remote del suo cantore. Preservata dai menestrelli gallesi, questa raccolta affonda le sue radici nei misteri dei derwydd, i veggenti della quercia, i druidi. Purtroppo le parti in versi sono andate quasi tutte perdute. Restano però alcune strofe dell’antico mito gallese noto come Câd Goddeu, ovverosia La battaglia degli alberi, narrato in brevi versi rimati che ripetono la stessa rima anche per quindici versi consecutivi. Sarebbe la storia del conflitto tra Arawn, re di Annwn4 , e i fratelli Gwydion e Amathaon, figli di Dôn, capitribù dei Túatha Dé Danann5 . Ho usato il condizionale perché quest’antica poesia include numerosi versi che nulla hanno a che fare con il tema proposto dal suo stesso titolo, ragion per cui il testo appare misterioso e, in certi passaggi, finanche insensato. La parte d’interesse per il presente articolo è legata alla battaglia in se stessa e ne propongo un breve estratto, attenendomi alla traduzione dello stesso Graves6 . Lo studioso l’ha integrata e riveduta per mezzo di fonti parallele ed erudite intuizioni personali che trovo filologicamente discutibili, ma poeticamente valide. Il senso di questa curiosa narrazione affiora solo rammentando che, nella maggior parte dei linguaggi celtici, la parola «albero» significa anche «lettera». I druidi assegnavano alle varie specie di albero dei significati precisi, basilari per la loro religione e per la loro letteratura. Inoltre l’alfabeto irlandese più antico, il Beth-Luis-Nion (Betulla-Sorbo-Frassino), era studiato come sequenza d’iniziali di nomi d’alberi. Perciò quest’alfabeto è chiamato anche «Ogham craobh», cioè «scrittura arborea». Il faggio, in particolare, essendo il legno col quale i celti creavano le tavolette per scrivere, rappresenta la letteratura in sé. Le parole inglesi book e beech (faggio) hanno la stessa radice. Non è necessario sviscerare il resto della simbologia druidica per capire come l’antico autore di questo testo vi abbia tratteggiato una tenzone magica e poetica che vede la vittoria di un esercito di parole contro un muto avversario, contro il silenzio, contro la rinuncia alla conquista di un significato. Ogni pianta è un orizzonte simbolico e concettuale che si unisce agli altri nella costruzione del senso e questa costruzione è decisamente magica. Secondo un riassunto di una storia simile preservata in Peniarth MS 98B (fine XVI sec.), alla battaglia partecipano un uomo e una donna che sono invincibili fintanto che il loro nome resta un segreto. Gwydion scoprirà il nome dell’uomo, Bran, e questo trionfo sapienziale lo condurrà alla vittoria. La donna conserverà il suo mistero e il soprannome col quale tutti la conoscono: Achren, nome che significa sempre «alberi» e quindi «lettere». Era comune credenza, nell’Occidente dell’epoca, che il nome delle cose fosse la loro essenza e che conoscerlo le rendesse controllabili. Bran e Achren erano forse le divinità di due popoli in lotta per la supremazia culturale e religiosa. Conoscendo il nome del dio avversario, lo si consegna all’influenza dei propri numi che ne freneranno il potere, rendendo possibile sconfiggere il popolo che gli è devoto.

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Note:

1. Cfr. Zhuangzi, tr. it. di Carlo Laurenti e Christine Leverd, Adelphi Edizioni, Milano, 1982, p. 71.

2. Cfr. Robert Graves, La Dea Bianca, tr. it. di Alberto Pelissero, Adelphi Edizioni, Milano, 1992.erd, Adelphi Edizioni, Milano, 1982, p. 71.

3. Cfr. Eric Pratt Hamp, “Mabinogi”; Transactions of the Honourable Society of Cymmrodorion (1974-1975), Londra, pp. 243–249.

4. Letteralmente «il luogo senza fondo», è l’oltretomba, il mondo ipoctonio della mitologia preceltica. Forse è identificabile con una necropoli sita nei pressi dell’odierna Salisbury.

5. Secondo il ciclo delle invasioni della mitologia irlandese, questo popolo preistorico era una confederazione di tribù che invase l’isola e la colonizzò prima dell’arrivo dei gaeli. Si ritiene che il nome significhi «tribù della dea Danu».

6. Ivi, p. 52-55.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.